L’era dell’oro dei giornali, e la Grande Depressione dell’oggi
Un libro di recente uscita mette nero su bianco la storia più affascinante del mondo dell’editoria di moda, tra eccessi, spese folli, e termometri della cultura sempre alla temperatura perfetta. Una storia che appartiene al passato, ma che ha molto da insegnare anche al presente.
Una mattina del 1985, Tina Brown entrò nella Map Room della Casa Bianca insieme al fotografo scozzese Harry Benson, che aveva già scattato scene facete – i Beatles che si facevano guerra coi cuscini nell’hotel Georges V di Parigi – e altre ben più drammatiche – il senatore Robert Kennedy che giaceva morto a terra, dopo essere stato assassinato all’Ambassador Hotel. L’obiettivo era scattare l’allora coppia alla guida degli Stati Uniti: Ronald e Nancy Reagan. Tina Brown però, sapeva che quel ritratto presidenziale non poteva essere troppo formale: il suo obiettivo, da quando era arrivata dall’Inghilterra, era trasformare una rivista che perdeva investitori (e milioni) nella Bibbia dell’americano medio, un vademecum che illudesse il lettore di poter penetrare quella cortina visibile e invisibile che superava le celeb e i politici da tutti gli altri. Lo shooting era stato programmato poco prima di una cena di stato con i diplomatici argentini, il tempo per lo scatto giusto era risicato. Benson però, era arrivato lì già preparato, consapevole della difficoltà nella tempistica: fece partire da una radio la canzone di Frank Sinatra, “Nancy”.
“Adoro questa canzone”, squittì Nancy verso il marito, “balliamo”
“Non possiamo certo far aspettare il presidente dell’Argentina, Nancy” tentò di ribattere il marito senza molta convinzione
“Oh, falli aspettare”, rispose Nancy ridendo, buttandosi tra le braccia del marito e iniziando a muoversi a ritmo di musica.
Una dialogo che, il libro Empire of the Elite: inside Condé Nast, the Media Dinasty that reshaped America definisce come “uscito da un film di Fred Astaire”, e che poi si tradusse in un servizio fotografico che finì sulla copertina di Vanity Fair, di cui Tina Brown era direttrice. Un numero, quello di Vanity Fair, che fu un successo di vendite, e convinse il patron di Condé Nast, il machiavellico Si Newhouse, a concedere a Tina Brown altri due anni alla guida del giornale. Ad essere sinceri, quella mancanza di fiducia non era colpa di Brown, quanto delle due precedenti direzioni di Vanity Fair, che Newhouse aveva rilevato affidandolo inizialmente a intellettuali e letterati che erano stati incapaci di renderlo un successo commerciale: in quel momento aveva appena speso circa 168 milioni di dollari della sua fortuna per acquisire un altro titolo che sognava da tempo, il The New Yorker, e stava perdendo le speranze di rivitalizzare Vanity Fair. Tina Brown gli provò che aveva torto. Una storia come tante, che torna in mente di fronte all’ultima copertina di Vogue America, il September issue 2025, con protagonista Emma Stone in Louis Vuitton: una copertina definita dagli utenti social “pigra”, eterodiretta dal brand che veste l’attrice (che di Vuitton è anche ambassador), una “pubblicità sfacciata”alla maison francese. Il servizio interno è in effetti totalmente mono dedicato – una pratica che esiste da sempre nei magazine, che prevede un congruo pagamento da parte del brand che richiede l’esclusività, e che va sotto il titolo di “advertorial” mentre in questo caso, di fronte alle critiche Condé Nast ha fatto sapere che quella scelta è stata “esclusivamente editoriale”.
(qui potete trovare un’intervista recente a Graydon Carter, ex direttore di Vanity Fair, su Fashion Neurosis)
https://www.youtube.com/watch?v=Bj0G58elegQ (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)Quel libro, di recente pubblicazione, scritto dal giornalista del New York Times Michael M. Grynbaum, è finito agli onori delle cronache e ripreso da più giornali perché include una lista di argomenti che le candidate a lavorare da Vogue – in italia autodefinitesi “Voguettes” o “tacchettine” per il rumore dei loro tacchi (obbligatorie le Manolo Blahnik, Dio non voglia trovarle con dei mocassini, al massimo delle ballerine di Chanel) dovevano maneggiare abilmente negli Anni 90 per essere assunte. Tra di essi figurano la conoscenza del “chi è chi” della New York dell’epoca, dei locali dove è necessario farsi vedere a pranzo – senza l’effettiva necessità di consumare del cibo – o dei libri che bisogna aver letto e (Lolita di Nabokov, tra gli altri). Nella realtà, è anche un valido documento assai dettagliato (grazie a moltissime fonti storiche e ex dipendenti che hanno parlato con l’autore) di come sia stato possibile per il colosso editoriale fondato da Condé Montrose Nast (che sì, era una persona realmente esistente), diventare anche un fenomeno culturale capace di tenere il polso della società americana, anticipandone a volte desideri e pulsioni. Definito dal Guardian “un affare sobrio, un racconto cronologico di cinquant’anni di eventi, con il merito di una relativa obiettività”, nelle sue 326 pagine sono evidenziati gli ingredienti della ricetta del successo.
Una su tutte: mescolare la cultura alta con quella pop, così come fece Tina Brown da Vanity Fair e poi quando espugnò l’enclave wasp del The New Yorker, di fronte al disgusto della high society dell’epoca, che era abituata ad una tipologia di giornale totalmente diverso, probabilmente anacronistico, che, ad esempio, non elencava neanche un sommario perché, nelle parole di un giornalista dell’epoca“quello che c’è nel giornale, non è affare del lettore”.
Tra le pagine da lei dirette si è parlato di epidemia dell’AIDS, così come di femminismo indiretto (quello nel mettere una Demi Moore incinta e vestita solo della sua pelle su Vanity Fair, gesto applaudito persino dall’intellettuale femminista Camile Paglia, una non certo prodiga di complimenti) e infine di depressione, in un memorabile pezzo firmato nel 1989 da William Styron, l’autore de La scelta di Sophie, che causò un profluvio di lettere in redazione (americani che si erano rivisti in quei demoni che non erano mai riusciti a spiegare così bene a se stessi, e di conseguenza ad amici e parenti). Rischiare, affrontando tematiche pruriginose per la morale dell’epoca, ma necessarie, è stato un atto di coraggio che ha posizionato certe riviste al centro delle chiacchiere non solo dei ristretti circoli di milionari dell’Upper East Side, ma pure della classe media.
Una qualità che era possibile raggiungere solo assumendo i direttori più visionari (anche al netto di rischi e critiche preventive) e pagandoli tanto, tantissimo, a volte troppo, anche perché SI Newhouse era convinto che i suoi direttori, o i suoi protetti, dovessero in qualche modo incarnare lo stile di vita di cui parlavano nelle pagine. “Per formare il gusto” spiega lo stesso autore “bisognava incarnarlo. I redattori di Condé Nast erano gli influencer originali, le loro vite una campagna di marketing per l’azienda che li aveva assunti”. E così via a mutui garantiti per case in campagna e in montagna, facilitati da Condé Nast, solo viaggi in prima classe, soggiorni a Parigi obbligatori al Ritz, diarie per le trasferte da far girare la testa come i 10 mila dollari che un redattore utilizzò in viaggio a Venezia perché si era dimenticato la copia staffetta del Vanity Fair che sarebbe stato presentato di lì a poco, e li usò quasi tutti per ingraziarsi i gondolieri per aiutarlo a ritrovarla; una caffetteria interna realizzata da Frank Gehry in stile space Age dove, quando Anna Wintour si sedeva, aveva già pronto un cappuccino alla sua temperatura perfetta (a costo di realizzarne più o meno una decina da quando chiamava per prenotare un posto a quando effettivamente arrivava).
In cambio però, i direttori assumevano o scoprivano solo le firme migliori, i giornalisti o gli scrittori più richiesti, garantendogli, per la prima e ultima volta nella storia, paghe stellari, come quei stratosferici dodici dollari a parola garantiti nel 2007 a Tom Wolfe per scrivere un pezzo sul numero di debutto di Portfolio (rivista poi chiusa solo due anni dopo).
In materia editoriale però, la stessa ricetta di mix di alto e basso usata da Brown è stata poi adottata anche da Anna Wintour sin dalla sua prima copertina (la modella Michaela Bercu con un top couture di Christian Lacroix e un jeans). Merito di Wintour è stato anche scoprire, e poi debitamente segnalare ai milionari dei conglomerati nascenti, gli astri della moda, da John Galliano a Marc Jacobs, che sono consapevoli di dovere una carriera a lei (al netto del talento indiscutibile, che però avrebbe trovato più difficoltà ad emergere, senza le connessioni e i finanziamenti che Wintour trovava per loro).
Graydon Carter da Vanity Fair si è invece intestato la creazione del party degli Oscar che è ancora oggi l’evento festaiolo del quale l’accesso è agognato da molti: il suo Vanity Fair si trasformò in un veicolo di pubblicità obbligatorio per attori e registi che volevano/avevano bisogno di apparire al suo interno in prossimità dell’uscita di un progetto, per ottenerne una validazione all’interno del sistema hollywoodiano.
Anche la parte del marketing assume qui un ruolo da protagonista: tra i publisher di Condé Nast ci sono figure passate alla storia come Steve Florio e Ron Galotti, maschi alfa dall’attitude da cowboy, tutti baffi voluminosi, granitiche sicurezze e metodi sbrigativi: il secondo è quello che ha ispirato in maniera abbastanza letterale il personaggio di Mr. Big in Sex and the City (Galotti ha frequentato per un periodo Candace Bushnell, la scrittrice della saga su Carrie e le sue amiche). Un’associazione della quale Galotti, lungi dall’essere offeso per la violazione della privacy, era assai orgoglioso, tanto da spiegare a Chris Noth – l’attore divenuto Mr. Big sullo schermo – l’esatta pronuncia di quel suo intercalare “Abso-fucking-lutely”.
Oggi, Condé Nast naviga in acque molto meno sicure: il mondo, semplicemente, è cambiato. I giornali non sono più gli unici ad avere diritto di parola nel mondo della comunicazione, e l’economia dell’attenzione ci porta a prediligere contenuti più veloci, da consumare senza pensieri. Tramite Instagram, gli attori e le celebrities possono parlare in maniera diretta con il loro pubblico, senza intermediari, riuscendo a “confezionare” la versione della realtà più adatta ai loro bisogni. I risultati epocali raggiunti dai suoi giornali erano finanziati da ingenti, enormi somme di denaro che oggi hanno smesso di fluire sui conti correnti, anche perché gli investitori (brand di moda e bellezza) devono divedere il loro budget marketing su molte più realtà (il web, YouTube, TikTok, gli influencer etc etc). Vogue ha smesso da tempo di essere promotore delle tendenze e sostenitore di nuovi designer, accontentandosi – come tutti gli altri giornali, d’altronde– di inseguire le microtendenze di TikTok, nella speranza di cogliere, ancora, lo zeitgeist. I designer che appaiono sulle sue pagine sono quelli che hanno i soldi per pagare le ingenti pagine di pubblicità: il resto del mondo è lasciato fuori. Si Newhouse è morto nel 2017 e con lui è finita in qualche modo la leggenda, senza che molti fuori dagli Stati Uniti siano davvero consapevoli del peso che ha avuto nel bene e nel male nel formare la cultura americana, e poi, quella del mondo intero: The Art of the deal, la biografia di Donald Trump che mise per la prima volta il milionario sulla mappa della high society americana, fu pubblicato su suo desiderio – e forse su suggerimento di un suo grande amico dai tempi della scuola, l’altrettanto mercuriale Roy Cohn – dalla Random House, casa editrice di sua proprietà.
L’eccezione è però nel The New Yorker, che, dopo aver abbracciato il paywall su Internet – una transizione alla quale Condé Nast, come tutti gli altri, è stata obbligata dai dati, più che dall’intuito verso nuovi modelli di consumo delle news - ha moltiplicato le sue entrate, dovendo rispondere dei suoi contenuti non tanto agli investitori, quanto ai suoi (moltissimi) lettori. Dal 2019 il ceo è Roger Lynch, ex ceo del servizio di streaming musicale Pandora: arginare però l’emorragia di rilevanza culturale fino ad ora non gli è riuscito. Nel 2021, gli impiegati del The New Yorker riunitisi in un sindacato, hanno condotto picchetti sotto la casa del Greenwich Village di Anna Wintour, intonando “Bosses wears Prada, workers get nada”. Finiti i tempi delle spese folli, dei driver privati (come Sergei, l’unico dal quale Graydon Carter si facesse condurre), moltiplicatesi le chiusure dei titoli (Glamour, Teen Vogue, Allure) sembrano mancare le figure capaci di affrontare dei rischi, l’accentramento dei poteri su Anna Wintour negli ultimi mesi si è fatto più spiccato, mentre gli altri direttori assomigliano sempre più a gregari che a degli individui dotati di personalità e visioni proprie. Nell’immaginario collettivo, in qualche modo, però, rimane traccia di quella storia assurta a leggenda pop sugli schermi: le immagini rubate dal set di The devil wears Prada 2, attualmente in lavorazione, con il personaggio di Miranda Priestly chiaramente ispirato ad Anna Wintour, ne sono una testimonianza. Chissà se però le nuove generazioni – che dalla moda e dalle sue dinamiche finanziarie sono sempre meno interessati – conoscono il parallelismo. Se Condé Nast riuscisse a decriptare il codice per rendere i giornali di nuovo rilevanti sarebbe una buona notizia non solo per i suoi titoli, ma pure per quelli di tutti gli altri, che potrebbero seguirne la strada. Per ora, non sembra che un servizio di copertina monografico di 12 pagine con l’attrice più famosa e il brand più ricco – una forma di propaganda soft di realtà e professionalità che sono già talmente note da essere divenute dogmatiche – possa funzionare come strategia. A meno che non si desideri sollecitare sbadigli annoiati, laddove sarebbero invece necessari sospiri di desiderio, o persino, Dio non voglia, sussulti scandalizzati, che ci ricordino che i giornali servono, prima di tutto, a informarci, per poterci mettere in discussione. E poi, ovviamente, comprare di conseguenza.
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