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Il futuro del giornalismo al tempo delle AI.

Care lettrici, cari lettori,

invece di andare su un motore di ricerca oggi parte di voi (come me) apre ChatGPT, Perplexity o l’“AI Overview” di Google, si fa servire una panoramica sul tema ricercato e poi, solo se qualcosa deve essere approfondito davvero, decide di seguire il link originale. Il risultato è un web sempre più zero-click: l’informazione resta, il traffico svanisce.

Mettiamo i fenomeni in fila. Il giornalismo digitale era in affanno molto prima che un modello AI cominciasse a fare ricerche al posto nostro. Ogni svolta algoritmica degli ultimi quindici anni – dal Facebook-boost al SEO-first, fino al Tiktok-scroll – ha spinto molte redazioni a puntare sul trinomio velocità/quantità/click-bait. Una strategia che paga nel brevissimo termine ma erode la fiducia e spesso la stessa monetizzazione pubblicitaria su cui vorrebbe vivere. Le AI arrivano, trovano un ecosistema già indebolito e ne accelerano le crepe: se l’articolo è povero, il lettore non sentirà il bisogno di cliccarlo quando un riassunto automatico basta e avanza.

Si apre inoltre una questione spinosa: chi stabilisce se una testata merita di entrare nei riassunti? I grandi modelli incrociano liste di reputazione (NewsGuard, GDI), autorità dei link, trasparenza editoriale, frequenza di smentite. In pratica un miscuglio di segnali che premia i brand storici (alcuni, diciamolo, ben poco affidabili) ma lascia in una zona grigia molti piccoli progetti indipendenti, ottimi nei contenuti ma mai catalogati da quei “guard-rail”. Il risultato, per ora, è che le AI tendono a citare le testate con etichetta verde e a ignorare il resto a meno che la domanda dell’utente non sia davvero di nicchia. L’entshittification (merdificazione) di internet credo sia una diagnosi sbagliata: a morire saranno i contenuti spazzatura, ma il criterio con cui si distingue la spazzatura da un contenuto di qualità è un problema aperto.

Le testate riconosciute come affidabili rischiano meno di scomparire dal radar; le più grandi monetizzano i propri archivi grazie agli accordi con OpenAI, Google o Perplexity. Ma lo scambio è ambiguo: incassi una quota sui dati, perdi parte del pubblico che atterrava sul sito. Nel frattempo Cloudflare offre ai publisher un “rubinetto” per bloccare i crawler o farli pagare.

E i piccoli? Forse devono spingere su ciò che l’AI non può offrire: voce, contesto, rapporto con la comunità dei lettori. Rifiutarsi di farsi leggere dalle AI è dannoso, perché significa essere espunti dalle risposte automatiche, cioè dall’immaginario collettivo. Cercare di essere pagati è molto difficile, se si è piccoli progetti (dunque con una mole limitata di dati) o Open Access come noi.

Bisogna però ricordare che il vero ruolo di un giornale non è generare page-view, ma incidere sull’opinione pubblica. Il modello economico è cambiato e può cambiare ancora. Se un testo finisce citato dal modello in mille conversazioni, il suo potere resta intatto, anzi si moltiplica. Però diventa meno monitorabile e monetizzabile. Per questo il sostegno diretto di chi legge – abbonamenti, membership, donazioni – non è un complemento: è la spina dorsale che ci permetterà di attraversare l’ennesima mutazione dell’ecosistema.

Noi continueremo a investire tempo ed energie sulla qualità – approfondimenti, fonti aperte, trasparenza su errori e correzioni – invece di inseguire la quantità. Voi, se volete, continuate a darci il privilegio di un click quando il riassunto non basta, e soprattutto difendete con l’abbonamento questo spazio culturale indipendente.

A presto,

Francesco D’Isa

Georges Braque © La Barque sur La Greve, 1955 Curtesy Pananti. (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

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