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LA NEWSLETTER SETTIMANALE DI ANDREA BATILLA

PARTE UNO

COME NON SI FA UN BRAND: GIVENCHY

Kaia Gerber, modella figlia di Cindy Crawford, indossa su uno sfondo bianco un abito corto rosso con spalline e dei mocassini neri. Si muove ascoltando la voce di Halina Reijn, regista di Babygirl, uno degli ultimi film di Nicole Kidman.

Sarah Burton, direttrice creativa di Givenchy, descrive così la campagna: “ L'idea alla base della mia prima campagna per Givenchy è incentrata sull'amicizia tra una regista e un'attrice. Il documentario che hanno girato ha tutta la giocosità e la ponderata libertà di espressione di due donne che si divertono a creare un immaginario insieme. Celebra la visione femminile e ciò che provo per la moda”.

Cosa ci sia di ponderato in questo progetto è abbastanza difficile capirlo come è poco chiaro quale sia la visione di Burton per il brand. Ma soprattutto mi domando in che modo una modella milionaria e una regista non esattamente visionaria possano celebrare la visione femminile. Che visione poi?

Se si guarda alla sezione e-commerce del sito di Givenchy si trovano una serie di pezzi provenienti direttamente dalla prima sfilata della nuova direttrice creativa, tutti belli e tutti anonimi. Certo, ci vuole tempo per ingranare e per trovare una strada ma questo tentativo evidente di neutralizzare ogni forma di identità è abbastanza inquietante.

Dietro questo nuovo corso c’è il CEO Alessandro Valenti che ha assunto quella posizione da circa un anno, che è uomo dalla cultura commerciale e dalla forte esperienza sul retail costruita in gran parte dentro il gruppo LVMH. Non esistono cifre ufficiali sul fatturato dei singoli marchi del gruppo ma Givenchy dovrebbe stare intorno ai 400 milioni annui che lo colloca quasi in fondo alla lista.

Questo vuol dire, se non altro, che c’è molto margine di miglioramento, senza dimenticare che profumi e make-up hanno invece un’identità estremamente precisa di cui nessuno sembra occuparsi mai.

Di Givenchy, che è passato tra le mani di Galliano, McQueen, Julien McDonald, Riccardo Tisci, Claire Waight Keller e Matthew Williams possiamo solo ontologicamente predicarne l’esistenza ma è molto difficile dire altro. Givenchy, semplicemente, non è un brand ma un ammasso di esperienze diverse che hanno costruito, distrutto, ricostruito e distrutto mondi anche fortemente contrastanti di cui non rimane traccia. Il lavoro più importante lo ha fatto Tisci che durante i suoi anni alla guida del marchio ha rivoluzionato tutta la moda maschile ma alla sua dipartita quelli di LVMH si sono affrettati a cancellare tutto.

Si potrebbe pensare che dietro questi passaggi incoerenti, esemplari del momento storico che la moda sta attraversando, ci siano complesse strategia di rebranding che magari risultano poco comprensibili ad un osservatore esterno ma io temo, invece, che dietro ci sia solo una smisurata quantità di incompetenza.

Perchè, sì, questo è il problema della moda oggi. Non la crisi del mercato cinese, non le guerre, non le destre al potere, non il quiet luxury ma l’incompetenza del management.

Se ci pensate negli ultimi 10 anni il settore moda è cresciuto in termini economici alla velocità della luce in maniera relativamente facile. Nel 2015 LVMH fatturava 39 miliardi di dollari, nel 2024 ne ha fatturati 95. Giusto per fare un esempio.

A questa crescita non è seguita una nuova generazione di manager visionari ma una serie di soldatini spaventati che preferiscono non prendere decisioni piuttosto che rischiare l’insuccesso. 

Nel caso di Givenchy non so quanto la questione riguardi Sarah Burton o Alessandro Valenti ma di certo lei ha dimostrato di saper portare avanti un brand impossibile, McQueen, per molto tempo, mentre lui deve ancora dimostrare tutto.

Il mondo è un brutto posto ultimamente ma non si spazzano via le incertezze dei consumatori stando neutrali. È sempre più necessario prendere una posizione, guardando per esempio il successo di Pieter Mulier da Alaïa che di neutro non ha assolutamente niente. Si chiama moda. È una cosa che vive all’interno di un contesto creativamente coraggioso. Altrimenti si chiama prodotto.

PARTE DUE

COME SI FA UN BRAND: ZEGNA

Ermenegildo Zegna ha fondato l’azienda che porta il suo nome nel 1910 a Trivero, in provincia di Biella. Oggi Zegna fattura quasi 2 miliardi di Euro, producendo anche Thome Brown e Tom Ford.

Quando Alessandro Sartori, il direttore creativo del marchio, ci ha raccontato la collezione, durante una preview per la stampa, in occasione della sfilata che si è appena tenuta a Dubai, ha approfondito molto il concetto di filiera che poi è lo stesso di Made in Italy. Praticamente tutta la filiera produttiva di Zegna è non solo controllata ma di proprietà dell’azienda. I tessuti lanieri provengono dal lanificio Ermenegildo Zegna, cachemire e sete dalla Tessitura di Novara, jacquard e tessuti fantasia da Bonotto, i jersey da Dondi Jersey, i tweed dalla Tessitura Ubertino, fino ai filati di Biagioli Modesto e la maglieria di Luigi Fedeli e Figlio. Ma anche le unità produttive dell’abbigliamento, dal formale allo sportswear sono di proprietà di Zegna. La cosa interessante è che tutte queste aziende mantengono una propria identità e continuano a lavorare anche per altri marchi, riuscendo di fatto a sopravvivere in un momento di generale smobilitazione della filiera produttiva del Made in Italy.

Tutto questo, come raccontava Sartori, permette di sviluppare un processo creativo che parte dal filato e arriva al capo finito, con la garanzia della massima qualità possibile.

Su questa base piuttosto unica si innesta una visione del formale maschile aperta, elastica e innovativa che sta spingendo, centimetro dopo centimetro, il maschio basico ad accogliere nuove estetiche, più contemporanee e meno rigide.

Porsi degli obiettivi precisi, come ha fatto Alessandro Sartori quando nel 2016 è diventato direttore creativo del brand, è una cosa che da struttura a un progetto, anche se questi obiettivi sembrano impossibili. In questo caso lui e la famiglia Zegna hanno deciso di fare uscire il marchio dall’anonimato dell’abbigliamento formale maschile, tracciando un linguaggio nuovo che fino a poco tempo prima era impensabile.

Incredibilmente, il tradizionalismo della storia di Zegna non è stato frantumato o cancellato ma ha nutrito il cambiamento senza spaventare nessuno. Lo dimostrano i 200 appuntamenti che nei giorni successivi i clienti top hanno preso per farsi fare abiti su misura.

La restituzione finale di tutto questo, la superficie visibile, è una sfilata che, meglio di sempre, ha articolato uno sguardo lento, lieve e morbido sul maschile, raccontando che da quelle parti i bei vestiti sono il prodotto di un pensiero che ha richiesto una lunga e complessa attuazione. In una parola, la ricetta per fare un brand.

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