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Albedo Newsletter - N°32

Ciao, questa è la newsletter Albedo, e io sono Sebastiano Santoro, scrittore di Duegradi. L’albedo è la capacità di un corpo di riflettere i raggi solari. I cambiamenti climatici stanno provocando, tra le altre cose, lo scioglimento dei ghiacciai; e la scomparsa di queste estese superfici chiare sta alterando l’albedo terrestre. L’obiettivo di questa newsletter è creare uno spazio condiviso in cui idee e storie sull’Antropocene e sui cambiamenti climatici possano sedimentare e, allo stesso tempo, riflettersi e diffondersi un po’ ovunque. Come i raggi solari quando colpiscono il nostro pianeta, appunto. Uno spazio utile perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di cambiamenti, non solo climatici. Albedo cercherà di raccontarli, in tutte le forme possibili, dalla fiction alla non-fiction, e lo farà in cinque parti.

  • La prima è una sorta di editoriale;

  • la seconda è un consiglio di lettura;

  • nella terza c’è un piccolo promemoria sugli ultimi articoli pubblicati da Duegradi;

  • la quarta contiene link per offerte di lavoro e corsi di formazione, perché anche il mondo del lavoro sta cambiando;

  • l’ultima, la quinta parte, è un tentativo di misurare in cifre i cambiamenti che stiamo vivendo.

L’era dell’umiltà

J. Beuys - Bolognano 13 maggio 1984 - Difesa della natura [poster]

Nei numeri precedenti di Albedo ho usato la parola Antropocene per definire l’epoca che stiamo vivendo. L’ho fatto spesso. In un caso gli ho quasi dedicato un intero numero (Öffnet in neuem Fenster). Bene: pare che sono stato un po’ avventato. Qualche mese fa, il gruppo di geologi che stava valutando la questione di usare Antropocene per definire l’era geologica in cui ci troviamo ha bocciato ufficialmente la proposta. Ma non è questo il punto; ormai la parola ha cominciato a circolare, viene usata in accademia, da intellettuali, persino sui giornali. Un significato, al di là della decisione strettamente scientifica, lo ha acquisito. Ora riprendo il tema non tanto per riaprire la polemica, ma per mostrare che Antropocene non è l’unico termine creato per descrivere la nostra epoca. E forse non è nemmeno il più giusto.

Una nota metodologica: qui considererò solo definizioni che implicano una cesura netta con il passato. Sulla scorta delle esperienze del secolo scorso ormai il termine rivoluzione suona quasi stantio, eppure da qualche decennio viviamo un’epoca che mette in crisi tutte le visioni del mondo precedenti. Sesta estinzione di massa; il capitalismo che mostra crepe profonde (disuguaglianze, rapporto con l’ambiente…); fenomeni globali difficili da spiegare; assenza di strutture culturali di senso tipiche del passato (il partito politico, la fede): in queste condizioni, usare termini che non marcano una rottura radicale mi pare quantomeno azzardato. Bene, premessa accolta. Ho dunque escluso i vocaboli che questa rottura non la esprimono, o la esprimono solo in parte (vedi modernità liquida, ipermodernità, eccetera eccetera).

Altra precisazione: le varie parole-guida che seguiranno sono analizzate con semplificazioni, enormi ma necessarie. Pensieri complessi ridotti a poche righe: abbi pietà di questa selezione drastica. Credo che comprendere sia un processo lento, fatto anche e soprattutto per sottrazione. Ma una presa di posizione — anche tra chi si dichiara ecologista — è ormai indispensabile. Perché nella costruzione del futuro, anche dentro il mondo ecologista, si profilano visioni opposte, spesso anche in conflitto tra loro, di sicuro meno omogenee di quanto si creda. È importante scegliere, in modo non neutrale, da che parte stare. Per costruire il futuro, ma soprattutto per non lasciare che sia qualcun altro a immaginarlo al posto tuo. 

Bene, ritorniamo al principio. 

La parola Antropocene è stata criticata. Prima di tutto dal punto di vista scientifico: nel 2024 il gruppo di lavoro incaricato dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia ha bocciato ufficialmente la proposta di istituirla come nuova epoca geologica. I segni lasciati dall’uomo, a quanto pare, non sarebbero ancora stratigraficamente stabili né omogenei: non si trovano in modo coerente in tutto il pianeta. Eppure, dicevo, nonostante la decisione dei geologi, il termine continua a circolare, nei giornali, nelle riviste, nei dibattiti accademici… nelle newsletter. 

È dal punto di vista del significato teorico, però, che provengono le critiche più interessanti. La filosofa Donna Haraway e altri teorici affini hanno notato che il termine Antropocene, che deriva dal greco ànthrōpos (essere umano) e kainos (recente), nel nominare un’epoca centrata sull’uomo, cioè sulla responsabilità dell’essere umano nel gran casino ecologico e sociale che viviamo, finisce per rimettere l’uomo al centro della scena. È un paradosso. È come se, dopo vari capitomboli argomentativi, invece che decentrare l’essere umano, farlo scendere dal pulpito evolutivo su cui si è unilateralmente posto a discapito delle altre forme di vita, la parola Antropocene mantenesse la nostra centralità, la nostra opposizione con la natura. Conservando l’atteggiamento da novelli Prometeo, di specie capace di dominare e trasformare tecnicamente tutto ciò che non è umano. Insomma un cortocircuito logico.

Un’altra critica che è stata mossa, non meno importante, è che l’Antropocene universalizza la responsabilità: come se tutta l’umanità fosse ugualmente colpevole della crisi ecologica, quando invece le responsabilità sono storiche, diseguali, situate.

Da questi presupposti la critica marxista propone un’altra parola: Capitalocene. Lo storico Jason W. Moore, che il termine l’ha coniato, sostiene che non è l’umanità in quanto tale ad aver trasformato il pianeta, ma un sistema economico e politico preciso: il capitalismo. È una visione potente, perché ridistribuisce le responsabilità del disastro ecologico, mostrando le radici economiche e coloniali della crisi. Moore insiste: il capitalismo non è solo un sistema economico, ma un modo di organizzare la natura, di ridurla a risorsa a basso costo da estrarre, misurare, vendere. Collega l’origine di questo processo all’espansione coloniale, alle piantagioni, alla schiavitù, alla divisione gerarchica tra umani, e poi tra umani e non umani. Tutto molto convincente, ma con un rischio: quello di semplificare e ridurre tutto a un unico capro espiatorio. Fenomeni come la crescita demografica, la diffusione di certi comportamenti, di una certa cultura o di un modo di vedere il mondo, non si spiegano solo con le dinamiche di potere. 

Paolo Missiroli in Teoria critica dell’Antropocene (Mimesis, 2022) ricorda che la relazione tra modo di produzione e mondo naturale è sempre dialettica: ogni sistema economico si colloca in un preciso spazio storico-naturale che non può mai dominare del tutto. Il capitalismo, ad esempio, è esploso anche grazie a una coincidenza: la scoperta di una fonte di energia a basso costo. Questa visione e questa parola, Capitalocene, pur illuminante, rischiano di relegare la natura a semplice sfondo. Moore arriva a dire che non esiste alcuna “natura” fuori dal capitalismo, e che la crisi ecologica è solo una delle sue tante contraddizioni. Così facendo, però, riduce il mondo naturale a prodotto del capitale e nega l’autonomia del non umano: piante, animali, fiumi, montagne, rocce, tutto ciò che si sta affacciando all’alba della consapevolezza umana del nuovo millennio, ciò che veramente può essere chiamato rivoluzionario, tutto assorbito nel racconto umano. Diciamocelo, non è poi il cambiamento che ci aspettiamo. 

A questo punto entrano in scena altri autori. Donna Haraway, Bruno Latour, Dipesh Chakrabarty. Quest’ultimo sostiene che, se vogliamo davvero ripensare la nostra epoca, l’unica cosa che bisogna fare, la più importante, è decentrare l’umano: ogni storia che mette al centro gli esseri umani dovrebbe riconoscersi come parte di una storia più grande, quella biologica, quella evolutiva, quella geologica, quella climatica. In fondo, la storia umana non è che una delle tante storie che abitano e che hanno abitato la Terra. L’Antropocene, allora, non è l’era del dominio dell’uomo, ma il punto di convergenza tra storie diverse: quella moderna e capitalistica, certo, ma anche quella della Terra e della vita stessa.

Latour e Haraway si muovono sulla stessa scia. Le loro teorie sono spartiti di una stessa melodia. Per l’antropologo francese, viviamo in una rete di relazioni in cui le potenze dell’agire sono condivise tra umani e non umani. L’essere umano convive costantemente con una moltitudine di attori naturali di cui ignora la forza e che, nonostante tutto, non controlla. Haraway invece ci invita a “stare nel guaio” (staying in trouble): a riconoscere che il nostro destino è intrecciato a quello della Terra e che non possiamo pensarci fuori da essa. Il compito, dice la filosofa, è making kin, intrecciare parentele con ciò che è altro da noi. Un compito non sempre semplice, ma necessario. Il termine che propone, Chthulucene, per quanto suggestivo (è preso da un famoso racconto di Lovecraft), probabilmente non avrà molta fortuna linguistica (vorrei vederti pronunciare Chthulucene più di una volta all’interno di un discorso), ma il pensiero che lo sostiene resta prezioso.

La Terra è un sistema incredibile. Più la studiamo, più ci accorgiamo che le condizioni che hanno permesso lo sviluppo della civiltà umana si reggono su un equilibrio fragile. Ogni volta che un singolo elemento si altera, tutto il resto ne risente. La Terra risponde in modo non lineare, è un organismo complesso, irriducibile, mai del tutto oggettivabile. L’interazione continua tra processi, specie, materia e energia, rende impossibile ridurre il pianeta a un modello meccanicista di causa ed effetto. E da qui, qualcuno ha cominciato a parlare di Humilocene, l’età dell’umiltà.

E qui lo dico: tra tutte le parole, è forse quella che preferisco. Humilocene viene da humus, la terra, la stessa radice di “umano”. Evoca un ritorno alla misura, alla consapevolezza dei nostri limiti. Non descrive un’epoca di catastrofi, ma una possibile rinascita etica e spirituale. Invita a un atteggiamento di cura e di ascolto, a una coesistenza con la Terra invece che a un suo controllo. Non mette più l’uomo al centro, ma lo ricolloca dentro il vivente, come parte di un intreccio comune. È una parola ospitale, che dialoga con molte tradizioni — ecologiche, femministe, indigene, postumaniste — e che apre a un immaginario positivo, rigenerativo.

Forse, più che una categoria teorica, è un orizzonte culturale. Un tempo possibile, in cui impariamo di nuovo ad abitare la Terra con umiltà. Non l’umiltà dell’abbassamento, ma quella che, come dice l’ecologista David Abram (Öffnet in neuem Fenster), nasce dallo “stare in ascolto del mondo più-che-umano”, di ciò che respira, si muove, fruscia, scorre attorno a noi. Abram parla di una humility of perception, un’umiltà percettiva: la capacità di riconoscere che la nostra mente non è sospesa sopra il mondo, ma è un prolungamento della sensibilità terrestre, un’emanazione del respiro stesso della Terra.

E allora sì, va pure bene che qualcuno pensi che sia una parola vaga, o con poco portato politico. Io l’ho scelta lo stesso. Da oggi, su Albedo, parleremo di Humilocene.

Albedo di ottobre finisce qui. A breve comincerà Cop 30, l’attenzione climatica si concentrerà in una metropoli nel pieno della foresta Amazzonica. Ripenso alla chiacchierata (Öffnet in neuem Fenster) che abbiamo fatto qualche mese fa con la biologa e attivista Emanuela Evangelista. Vivere all’interno della foresta, confrontarsi quotidianamente con i suoi pericoli, mantenere in allerta i sensi ogni giorno, un’esperienza di questo tipo non può che portarti ad avere un atteggiamento umile nei confronti del pianeta, e degli altri in generale. Questo numero è stato necessario per mettere i puntini su delle i che ci lasciavamo in sospeso da un po’ di tempo. In fondo serve anche per introdurti all’argomento del prossimo mese, che però non voglio svelare al momento. Ti dico solo che non sarà la Cop, Albedo non segue le strade più battute. Prende vie laterali, sommerse. Perché spesso sono quelle che portano a destinazioni più promettenti. Noi ci risentiamo a novembre. Ciao!



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