La moda, e l’orchestra del Titanic

Il fashion weekend dedicato alla moda maschile di Milano, tra luci e ombre di un settore che fatica a tenere il passo con la realtà
Secondo lo storico Senan Molony, autore di diverse opere incentrate sul naufragio del Titanic, la presenza dell’orchestra nelle ore finali della tragedia, il suo imperterrito suonare – per l’unica volta, in formazione completa, con 8 elementi, tutti poi deceduti – avrebbe contribuito a rassicurare i passeggeri, persuadendoli a rimanere a bordo, nella convinzione che la situazione non stesse volgendo al peggio, condannandoli a morte.
Al netto delle dovute differenze, e però con una situazione storica altrettanto drammatica, questa immagine sembra fotografare abbastanza fedelmente lo stato della moda maschile milanese (la fashion week di Parigi è appena iniziata, e non è ancora possibile trarre conclusioni di sorta).
Nonostante gli inviti alla calma e alla ricontestualizzazione del quadro generale – come quello del presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, Carlo Capasa, che a inizio giugno, invitato al talk di Style Magazine, ha detto “parlano tutti di crisi, la realtà è che la moda è in una grande fase di cambiamento” – è innegabile che, dopo la scomparsa dei radar della fashion week del menswear di Londra, anche Milano appaia sempre meno rilevante, con la sua “settimana” ridotta a un weekend (ne avevo parlato anche con i colleghi di Pambianco, che qui (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)mi avevano fatto qualche domanda).
E se sembra insolente parlare di moda e sfilate in un contesto geo-politico complesso, nel quale i leader populisti di ogni dove si rivelano incapaci di scongiurare con fermezza le sirene delle guerre, bisogna ricordare che solo in Italia, secondo proprio i dati di CNMI nel 2023 la moda occupava oltre 600mila addetti, distribuiti su circa 60mila imprese, con un fatturato complessivo di oltre cento miliardi. Più che dei vezzi degli stilisti, parlare di moda oggi vuol dire parlare di una forza trainante del nostro Pil, a cui corrisponde il lavoro specializzato e prezioso di “operai del lusso”, messo sempre più in pericolo da un contesto storico del quale nessuno, nella moda, ha colpa, ma anche da strategie aziendali e di filiera che si stanno rivelando in queste ultime stagioni in tutta la loro fallacia.
Privi di sovrastrutture e pletore di manager, chi può rispondere più velocemente a questo cambio di passo sono i brand giovani, che spesso hanno scelto forme di presentazione diverse rispetto alla classica sfilata (che richiede un impegno economico gravoso, a fronte di un risultato nelle vendite che potrebbe non essere speculare).
Magliano, ad esempio, ha presentato un corto, dal titolo Maglianic, realizzato in notturna su un traghetto della Grimaldi Lines, girato da Thomas Hardiman, regista che il creativo aveva avuto modo di apprezzare in Medusa Deluxe, thriller del 2022 che racconta di un omicidio consumato durante una competizione per parrucchieri (con le acconciature curate da Eugene Souleiman, tra i professionisti più richiesti del settore e che ha lavorato con Prada, Moschino, Lady Gaga, Alexander McQueen). Il corto, che immagina una notte qualunque consumata in mare, tra una stupefacente Cori Amenta alla disperata ricerca di un drink e i personaggi variegati che popolano l’universo di Magliano (come la frocialista, reduce di quel Collettivo presieduto da Lola Puñales a Bologna negli Anni Settanta) ha il merito di mantenere l’afflato poetico che è da sempre parte identitaria del brand. I vestiti si notano meno del solito per via dell’ambientazione in notturna, ma il compromesso è tutto sommato riuscito.
https://www.youtube.com/watch?v=jbE_fTRQuP4 (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)Anche i JordanLuca sono rimasti a Londra, consegnando alle stampe un comunicato nel quale ammettono di aver riflettuto sul da farsi (dopo che la scorsa stagione si erano letteralmente sposati in passerella) e aver deciso che dato il momento storico, una pausa di riflessione era necessaria. Un ritorno (temporaneo) a casa, che, conoscendo la coppia anglo-italiana, ricerca una pace dei sensi nell’esercizio fisico, e lo fa nel luogo primigenio deputato alla cura del corpo, la palestra. Seguendo i creativi su Ig, dove Luca Marchetto condivide costantemente la sua routine (fisica e alimentare), la scelta non stupisce: d’altronde la disciplina che i creativi applicano al loro corpo (come si allenano, cosa mangiano) è probabilmente capace in questo momento di grande incertezza di regalare loro un centro di gravità permanente, una religione laica alla quale votarsi aspettando tempi più sereni. Di conseguenza i modelli sono impegnati in flessioni, sollevamenti e sforzi di bicipiti, in biker jacket, gonne con l’Union Jack e pantaloni con zip orizzontale. Il mondo fuori è difficile da affrontare, il meglio che si possa fare al momento è cercare di coltivare la propria interiorità, trattare il proprio corpo come un tempio laddove le altre forme di culto (religioso, politico) hanno evidentemente fallito.

A fare da incubatore di talenti e progetti, per la stagione, è stata la Fondazione Sozzani – di Carla Sozzani, da sempre mecenate e scopritrice di nuovi nomi, insieme a sua figlia Sara Sozzani Maino – che ha organizzato un intero calendario parallelo, nel quale hanno presenziato brand come Cavia, Lessico Familiare, Simon Cracker, Agglomerati, Pronounce e Cascinelli.
Nella categoria big, con Zegna che ha già sfilato a Dubai, Gucci e Fendi che hanno optato per la formula co-ed, e presenteranno a settembre, il ruolo di capitano della barca della stagione maschile spetta a Prada. Per la prossima estate il duo formato da Miuccia Prada e Raf Simons riflette su un necessario cambio di tono, uno smantellamento dalle grisaglie e dalle asprezze, come forza di resistenza gentile al potere. Le maxi t-shirt glicine non hanno bisogno di pantaloni – e gli shorts, laddove ci sono, hanno volumi minimali – mentre gli scolli del doppiopetto mostrano la zip della tuta rosso corallo; le fantasie sulle camicie sono giocose e ondivaghe, i maglioni con scollo a barca hanno cuciture a contrasto che appaiono volutamente imperfette e non finite. Il flirt con lo stereotipo del marinière – per quanto da intendersi in maniera cerebrale e non letterale – è preistorico nel suo minimalismo assoluto.
Comprensibile il desiderio di lavorare sull’impulso – cosa che da Prada ormai si fa da parecchie stagioni – come prescrive lo stringato comunicato stampa, o anche di ricercare un sentimento diverso “non aggressivo, ma più calmo, gentile, umano” come detto dalla signora Prada ai giornalisti nel backstage. Il problema è che a forza di abbassare i toni per trovare nuove frequenze nelle quali l’aggressività dell’apparire (e dell’essere) sia bandita, si rischi di diventare rumore di fondo. I “luoghi immaginari” di cui fantastica il comunicato stampa sono di certo una destinazione ambita, in un momento nel quale la realtà è una distopia dalla quale tutti vorremmo scappare, ma guardare di traverso il contemporaneo, con il punto di vista peculiare e interessante che Prada ha sempre avuto sulle cose del mondo, non è la stessa cosa di spostare lo sguardo da un’altra parte.

Anche Giorgio Armani guarda in un altrove geografico, e però possibile: se con Emporio il viaggio è verso il maestoso continente africano, in Giorgio Armani si traduce su colori e silhouette ispirate a Pantelleria, non solo un’isola, ma anche il Sancta Sanctorum Armaniano per eccellenza. Pure se posizionato a latitudini altre rispetto a noi, Emporio ha il pregio di tradurre in un armadio “più realista del re” la filosofia del suo fondatore: i motivi geometrici, i ricami e le tessiture si adagiano su volumi rilassati, su blazer in lino o crêpe privi di insicurezze ed egocentrismi, interessati solo a rendere la vita semplice a chi li indossa, traducendosi su mani ruvide o fluide e impalpabili a seconda delle necessità. Peccato solo per i cornow, le treccine comuni a moltissime culture del continente africano – in passato oggetto di discriminazione per la comunità nera che le indossava – e sulla passerella sfoggiate anche da modelli bianchi (alla questione di quanto sia complesso per la moda europea in generale, esplorare e celebrare sistemi valoriali ed estetici non bianchi, rendendo loro il giusto tributo, e contemporaneamente mostrarsi consapevoli del pesante retaggio storico che portano in dotazione, come è di certo possibile fare, dovremmo dedicare altri spazi e altre newsletter)
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Giorgio Armani invece torna a Pantelleria per l’estate. Il designer non è presente, come era stato già annunciato da un comunicato stampa che parlava di una “convalescenza”. La sua temporanea assenza fisica ha forse reso più carica di significati una sfilata che di per sé era già riuscita, e che serviva a ricordare quanto tutto il lavoro di Armani sia stato rivoluzionario. Nato creativamente negli Anni 80, il suo lavoro si è configurato sin dagli inizi come una “resistenza” agli orridi doppiopetto imbottiti e squadrati, dichiarazioni tessili di un machismo gonfio, che arrivavano dritti dall’edonismo malato dell’America Reaganiana. Quel lavoro, che a volte negli anni è sembrato un pò chiuso in se stesso, reticente a qualunque tipo di contaminazione con mondi altri, distanti dal suo sentire, in questa stagione – forse proprio per corsi e ricorsi storici – torna ad apparire preciso, chirurgico, rilevante. Preferire ai diktat di spalle ad angolo retto e volumi boxy le curve create dalle pince a goccia sui pantaloni, le parabole seducenti di doppiopetto con colli a scialle e le abbottonature basse potrebbe essere una lezione utile non solo per l’armadio, ma anche per la vita, che abbisogna oggi più che mai di diplomazia, della rotondità della gentilezza, di una certa dolcezza che faccia da arma bianca di fronte al periodo storico nel quale ci si ritrova, assai sperduti.
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E ad essere sperduto, per il momento è anche Bally, che dopo aver perso il suo direttore creativo, Simone Bellotti – migrato da Jil Sander dove debutterà a settembre – riparte, senza molta originalità, da un campo di tennis. Complici le prodezze dei tennisti italici – e, dall’altra parte, i fallimenti spettacolari del calcio tricolore – lo sport di Agassi e Federer ha avuto un ritorno di popolarità negli ultimi due anni, e la moda non è rimasta a guardare (l’ispirazione tennis era di scena anche a Villa Necchi, dove si presentava la collezione maschile di Tod’s). Nel caso di Bally, però, è notevole il distacco creativo dall’ultima sfilata di Bellotti, suo personale Magnum opus nel brand nato in Svizzera e forse la collezione più rilevante dell’ultima stagione. Siamo tornati alla prima base – per usare una metafora sportiva, seppur non tennistica – e, senza un direttore creativo o anche solo una progettualità da parte della società californiana Regent LP, che ha acquistato Bally quasi un anno fa, è difficile immaginare di potersi mantenere sui livelli raggiunti da Bellotti.
A sentire i rumor, (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) invece, da Lvmh, dove si affronta il grande problema della crisi di rilevanza generalizzata della moda, all’ordine del giorno si riflette inspiegabilmente sulla successione di Kim Jones da Fendi, vagliando candidati variegati, tra i quali Willy Chavarria - che disegna abbigliamento femminile in maniera residuale – o Francesco Risso, appena liberatosi da Marni, e da sempre abbastanza allergico all’idea di femminilità giocosa, semiseria e mai davvero abrasiva che si indossa, e si vive, da Fendi. Se i pettegolezzi corrispondessero a realtà, sarebbe da studiare la testardaggine francese nel concentrarsi su un brand che funziona anche da solo, incaponendosi – dopo i risultati tutt’altro che esaltanti dell’era Kim Jones – nel voler posizionare un uomo laddove il matriarcato di Silvia Venturini Fendi (and family) basta a se stesso.
Ma d’altronde, se tocca convincere il pubblico a rimanere in ascolto, rassicurandolo sul futuro –un futuro la cui forma non si riesce ancora a intravedere, tra i nuvoloni neri che addensano il cielo – tanto vale continuare a suonare, come se nulla fosse. Cambiando partitura dove non serve, giusto così, per stupire un po’ e tenere alta l’attenzione. Per poi concludere, come il direttore d’orchestra del Titanic cinematografico, quello di James Cameron, “Signori, è stato un onore suonare con voi stasera”.
Ci rivediamo la prossima settimana, si spera con uno sguardo più fiducioso sul futuro,
Giuliana