Quella volta che Marlene Dietrich disse “O Dior, o niente”
Di molti abiti e notizie che potevamo risparmiarci, e di una frase che, invece, preconizzava già tutto
Del Festival del cinema di Venezia la moda sta parlando moltissimo, e non per motivi che siano anche vagamente cinematografici. Ci sono stati vestiti prestati tra Julia Roberts e Amanda Seyfried, che, oltre alla stessa stylist condividono gli stessi gusti (chissà se è vero o solo una geniale trovata di marketing); vestiti assai criticati perché considerati poco aderenti all’originale, come nel caso di quello di Dior by JW Anderson indossato da Alba Rochwacher (falso, perché il vestito pannier è un classico della maison ed è stato ripreso sia da Maria Grazia Chiuri che da Raf Simons); abiti neri dei quali si è parlato molto (sempre Versace indossato da Julia Roberts) e dei quali si è parlato troppo poco (il bel Bottega Veneta disegnato da Louise Trotter indossato dalla nuova testimonial Vicky Krieps).

In generale si è molto discusso della bontà di certe scelte dei brand (e dei conglomerati che li possiedono), di dare in pasto al pubblico vestiti figli di direttori creativi che non si sono ancora palesati sulle passerelle della fashion week con il loro debutto ufficiale: fuori dal loro contesto, uno nel quale gli addetti ai lavori si immergono per tentare di comprendere la visione generale del direttore creativo, la direzione nella quale pensa di portare una maison, evolvendone e moltiplicandone i significati, quegli abiti sono solo pezzi di stoffa sui quali chiunque può sviluppare pareri e sentimenti, magari influenzando la comprensione di un progetto che si svelerà nelle prossime settimane. Una riflessione a cui si deve aggiungere necessariamente un dato: i vestiti indossati dalle celeb nelle occasioni ufficiali sono realizzati da dipartimenti specifici degli uffici stile, e a volte possono essere slegati dal resto della collezione. Nella corsa spasmodica alla rilevanza, alla presenza, ogni occasione è buona per apparire: i brand, con l’ambizione di essere uno, nessuno e centomila, si dimenticano però quanto esprimeva con una certa visione periferica Hannah Arendt ne La vita della mente. In quel libro la filosofa statunitense descriveva il mondo come una serie di cose che esistono, in quanto, semplicemente, appaiono.
In questo mondo in in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono.

Quanto sia pericoloso “apparire” per la prima volta agli occhi degli spettatori, affidando la spiegazione di sé attraverso un solo abito (che sia riuscito o meno) lo hanno dimostrato i dissacranti commenti sui social. E seppur le regole non scritte della pubblicità e del marketing prescrivono che “nel bene o nel male, basta che se ne parli”, non si è molto certi che questo assunto possa valere anche in questo caso. La percezione di desiderabilità della quale la moda si fregia da più di 100 anni è da sempre stata appaiata ad un alone di mistero, di attesa, che fa parte del processo sensoriale attraverso il quale percepiamo degli abiti come più “meritevoli” o preziosi di altri. Se questo processo viene meno, al netto degli scandali che hanno coinvolto molti brand nello scorso anno – quelli evidenziati dalla Guardia di Finanza e che hanno svelato un approccio sistematico allo sfruttamento del lavoro e alla ricerca ossessiva di marginalità folli, e che hanno già ammaccato l’immagine del fashion System – qual è la differenza sostanziale tra le maison e il fast fashion? Se non si differenziano quasi più per le modalità di produzione e si predilige la presenza costante su qualunque schermo a media, all’assenza, al silenzio riflessivo, all’attesa, cosa ci impedisce di percepirli come sempre più simili?
A latere di queste riflessioni, c’è un capo del quale invece si è poco parlato, e che è figlio di una storia antica che merita di essere raccontata. Arrivato al Lido per presentare il suo nuovo film, After the hunt, Luca Guadagnino si è palesato ai fotografi con una t-shirt che recava la scritta “No Dior, no Dietrich”. Da lungo tempo vicino al nuovo direttore creativo della maison, JW Anderson – che ha curato i costumi di Queer, ma anche di Challengers – la citazione della t-shirt è ricordo di uno dei primi momenti nei quali un’attrice ha deciso che la sua immagine doveva essere legata ad uno specifico brand, in un’era nella quale non c’erano stylist condivise o colleghe che ti chiedevano in prestito il vestito. Era il 1949, e Dietrich era già Dietrich. Alfred Hitchcock aveva chiesto a Jack Warner di scritturarla nel ruolo della algida femme fatale Charlotte Inwood nel suo film Paura in palcoscenico (Stage Fright). L’attrice affermò che avrebbe accettato a condizione di far realizzare un guardaroba ad hoc da Christian Dior, che le era stato presentato anni prima da Jean Cocteau e di cui era diventata amica, tanto che, quando veniva a Parigi per presenziare alle sfilate, passava i weekend nella casa di campagna del couturier, a Milly-la-Forêt.
Di fronte ai costi che la produzione si sarebbe dovuta sobbarcare, Warner e Hitchcock tentarono di scongiurare l’opzione del guardaroba firmato ma Dietrich rimase inamovibile, tanto da pronunciare la frase “No Dior, No Dietrich”. I due capitolarono, riuscendo ad ottenere uno sconto del 25% su tutti i pezzi che la Maison Dior avrebbe fornito. Soddisfatta dall’accordo, Dietrich volò al numero 30 di Avenue Montaigne a Parigi, per selezionare i vestiti: un momento filmato da British Pathé, che mise su 3 minuti di pellicola la “divina” nei saloni della maison, mentre delle modelle sfilano di fronte a lei. Alcuni di quegli abiti – della collezione primavera/estate 1949, chiamata Trompe l’Oeil, sarebbero poi finiti nel film, con minime modifiche.
https://www.youtube.com/watch?v=CwjYzi7WGcE (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)Oltre agli abiti, però, nel contratto erano previsti anche accessori coordinati, borse, calze in seta e lingerie. Come poi, molti anni dopo fece Sarah Jessica Parker in Sex and the city, Dietrich fece inserire nel contratto una speciale clausola: quegli abiti, a fine riprese, se li sarebbe tenuti lei.
Quella fu la prima menzione ufficiale di Dior come costumista cinematografico, anche se lo stilista si era già messo alla prova in precedenza, aiutato dall’anonimato. Nella sua biografia del 1957, Dior by Dior (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), lo stesso Dior scrive: “Nella mia opinione, l’arte del costumista è essenzialmente diversa da quella del couturier. Quando Marcel Herrand mi chiese di disegnare i costumi per School for Scandal (opera teatrale del 1939) lavoravo in maniera anonima da Piguet. Questi sono stati i primi costumi che ho firmato: in seguito ho prodotto abiti per diversi film o spettacoli di danza classi, ma mai traendone del piacere. Disegnare per il teatro richiede l’improvvisazione, il sacrificio dell’artigianalità sull’altare dell’effetto, un approccio che è assai distante dal mio».
Nonostante una ritrosia nel giocare un ruolo che non sentiva come il suo, per l’amicizia che lo legava alla Dietrich, Dior realizzò anche i costumi del suo film successivo, nel 1951, Il viaggio indimenticabile (No Highway in the Sky) così come il vestito in satin nero con bolero che Dietrich indossò agli Oscar di quell’anno, dove presentò il premio per il miglior film in lingua straniera. In maniera sorprendente per i tempi, l’annunciatore stesso menzionò il vestito e il suo creatore.
https://www.youtube.com/watch?v=2r1aW7pVLjQ&t=129s (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)In seguito non ci furono più film nei quali Dietrich sfoggiasse dei Dior, almeno fino alla morte dello stilista per attacco di cuore nel 1957. Quando, qualche anno dopo fu chiamata per un piccolo cameo nel ruolo di se stessa nel film Insieme a Parigi, con protagonisti Audrey Hepburn e William Holden, Dietrich si tramutò in una apparizione, sbucata fuori da una Rolls Royce bianca, in un total look Dior, poco prima di entrare dalla famosa porta al 30 di Avenue Montaigne. Nella sua biografia del 1989, Marlene, la stessa star disse “il regista e il produttore pensavano che sarebbe stato divertente vedermi uscire da una macchina per entrare nel noto salon di Monsieur Dior. Li obbligai io, ovviamente».
Insomma, ancora una volta fu “No Dior, no Dietrich”, a preconizzare un rapporto d’elezione tra creatore e musa che si sviluppò negli anni successivi anche tra altri (Audrey Hepburn e Givenchy su tutti). Una materia rarissima ai giorni nostri, nei quali le celebrities si prestano ad essere testimonial di più designer contemporaneamente, facendo perdere identità alla maison e al proprio stile personale, piegato alle esigenze del marketing di questo o quel brand. E se il nostro livello d’attenzione è ormai talmente risicato che ce ne scorderemo presto, l’Internet, per sua conformazione, ce lo ricorderà finché sarà possibile.
Ci rivediamo presto, nello stesso fuso orario, ma in una nuova avventura.
“I don’t know where I’m going from here but I promise I won’t bore you”