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I dolori delle giovani riviste indipendenti

Il New York Times parla di “vendetta” dei giornali indipendenti, che tornano ad essere attori rilevanti nel mondo dell’informazione: la realtà è molto più complessa e stratificata, e necessita una (lunga) dissertazione.

Tra le domande che mi si pone più spesso, in quel luogo meraviglioso e impervio che sono i social – dove godo, in maniera inspiegabile, di un seguito minimale ma compatto –è “come hai fatto?”, inteso in maniera più ampia nel senso di “come è stato possibile nel mondo complesso e privo di fondi dell’editoria contemporanea, costruirsi una carriera (più o meno) rispettabile, una voce con un suo registro riconoscibile, e riuscire nel contempo a pagare l’affitto, non lavorando tra l’altro per magazine il cui nome arriva prima e in maniera più incisiva del tuo?” Una domanda la cui risposta è complessa e accidentata e che vale come esperienza di un singolo, più che come farmaco generico universale che può consentire a chiunque lo stesso esito: un esito che, nella realtà, ha una faccia diversa, più segnata dalle rughe e dai crucci e con l’incarnato meno luminoso di ciò che appare sui social, o meglio, di ciò che noi scegliamo di condividere sui social. Nel mondo dell’Instagram siamo tutti (o quasi) uguali nel tentativo di applicare alle nostre vite una curatela estetizzante, un filtro bellezza che cancelli i pori dilatati delle fatture pagate Dio solo sa quando ed esalti i punti di forza, gli zigomi alti di quell’intervista col designer di grido che siamo riusciti ad ottenere sudando mesi, gli occhi col taglio allungato della partecipazione all’esclusivo viaggio stampa, insieme ad altri simili, giornalisti, la categoria che lo scrittore ed editorialista del Foglio Michele Masneri definisce precipuamente “la fascia alta dei morti di fame”. Una domanda che mi è tornata in mente mentre recuperavo questo pezzo uscito ad aprile sul New York Times (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), e che racconta, appunto, della nuova età dell’oro che stanno attualmente vivendo i magazine indipendenti.

Per questo, in assenza di argomenti, con una moda che latita e fa fatica a scatenare interesse, questa newsletter sarà l’occasione per rispondere parzialmente a quella domanda degli inizi, raccontando come funzionano davvero i magazine indipendenti, inserendomi nella narrazione con la mia esperienza (si chiama New Journalism, se lo sono inventati gente come Tom Wolfe, Gay Talese, Joan Didion, e ora lo userò contro di voi). Qui sotto trovate Gay Talese che racconta la storia di quell’articolo che vive nella memoria di ogni giornalista, senza bisogno di pagare l’affitto, e che lui scrisse per Esquire nel 1966, “Frank Sinatra ha il raffreddore” (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre).

https://www.youtube.com/watch?v=ZJ1WRbRjcpE (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Nel mio specifico caso, l’apprendimento dell’Abc del giornalismo, dai lavori più umili come scrivere le didascalie, alle (notizie) brevi, si è costruito nei giornali che facevano parte dei grandi gruppi editoriali (Glamour, Icon, Flair, L’Uomo Vogue, Panorama) e con i quali ho collaborato per diversi anni. Un lavoro che è stato fondamentale quando sono poi approdata in redazioni di diverso tipo, quelle che oggi si definiscono di “magazine indipendenti”, in quanto non affiliati alle case editrici maggiori (Condé Nast, Mondadori quando non aveva smantellato la sua area dei periodici, Hearst, RCS). Ma quali sono, nello specifico, le gioie e i dolori nel lavorare in questa tipologia di giornali? Il New York Times evidenzia alcuni dei motivi di quella che definiscono la nuova età dell’oro: Búzio Saraiva, editore associato di nove riviste indipendenti tra le quali Luncheon e Holiday, sostiene che «si tratta di un laboratorio, più o meno simile all’area di Ricerca e Sviluppo delle grandi aziende, ma nell’industria creativa. Vedo gente che oggi scatta foto che noi abbiamo fatto 10 anni fa. Non tutti controllano tre volte per evitare di offendere o accontentare chiunque». In effetti, magazine che sono, per il loro Dna e per la loro circolazione, destinati a essere noti per una nicchia di pubblico, possono permettersi di realizzare servizi fotografici che, nei grandi magazine semplicemente non potrebbero esistere.

La loro dimensione “minoritaria” smette di essere uno svantaggio e diviene una forma di resistenza culturale all’appiattimento estetico che si vede sui giornali maggiori (che, appunto, devono accontentare grandi consigli d’amministrazione animati da diverse sensibilità e pubblici più ampi, anche se magari meno appassionati). Per questo motivo, negli ultimi anni celeb e modelle accettano di buon grado di apparire su magazine indipendenti – sulla copertina di The Polyester c’è stata Sofia Coppola, su quella di Notes on Beauty è apparsa Julianne Moore. Semplicemente, a livello creativo, è più stimolante per un attore/regista/operaio dell’industria creativa, essere presenti su questo genere di prodotti editoriali. Nello stesso modo, per la loro capacità di sfidare le convenzioni socialmente accettate sulla bellezza, sono molti i nomi da novanta della moda che accettano di lavorare come stylist o fotografi per un magazine indipendente, anche a una porzione ridotta di quello che di solito è il loro compenso, che questi giornali (così come ormai anche quelli più noti e solidi) non possono di certo permettersi: sul numero 27 di Dust la cover con Julia Nobis è scattata da Willy Vanderperre, collaboratore di lungo corso di Prada, definito dal sito di Art+Commerce, l’agenzia che lo rappresenta, come “uno dei più influenti fotografi e registi che operano nella moda contemporanea” (una descrizione roboante ma che è tutto sommato veritiera). Lavorare per questi giornali, insomma, garantisce una diffusa area di coolness, di purezza di ritorno, anche a chi ha il conto in banca già oleato da una carriera costruita quando nell’editoria c’erano ben più denari di oggi, e da collaborazioni ad vitam con i brand più munifici.

Personalmente, pur non essendo Willy Vanderperre, sui giornali indipendenti ho potuto trattare argomenti che i magazine mainstream considerano spinosi, attorno ai quali si muovono con circospezione, attenti a non calpestare le uova (gli interessi e gli umori dei grandi brand che sono investitori). Quando lavoravo per un noto magazine online il direttore aveva questa abitudine che mi frustrava, ma di fronte alla quale poco potevo: i pezzi di ricerca, o di riflessione, mi erano concessi – in qualità del cv che mi ero costruita negli anni – senza però mai sconfinare in affermazioni incontrovertibili, seppur logiche. Per questo, la frase finale del pezzo (nel gergo, la chiusa), veniva costantemente trasformata: laddove io avevo optato per una frase con un punto finale, si optava per un punto interrogativo, per evitare di sembrare troppo critici, preferendo un tremebondo domandare ad una (più potente) affermazione. Se l’informazione ha il dovere di raccontare la verità, priva delle impressioni personali e dei sentimenti di chi scrive, quella verità non può essere “sfumata” per evitare di dare dei dispiaceri a delle maison: quella è la propaganda. (Sotto una intervista a Joan Didion, che tra i primi lavori ha scritto di cultura per Vogue)

https://www.youtube.com/watch?v=nRQ1s2yKavs (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Oltre alla libertà creativa che concedono, i magazine indipendenti hanno una qualità ambitissima che i giornali “di grossa taglia” non si possono più concedere: un punto di vista, un’identità, cosa che nel pezzo del New York Times è ribadita anche da Penny Martin, direttrice di The Gentlewoman, un faro assoluto nel mondo dei magazine indipendenti. Avere personalità, nei giornali come nella vita, ti “condanna” a non piacere a tutti (l’obiettivo dei magazine mainstream) ma ad avere un pubblico ristretto, selezionato, di certo però più fedele, che si fida del tuo modo di vedere le cose della vita, o, anche se non è sempre d’accordo, quanto meno lo trova interessante, ed è portato a identificarcisi. Laddove un magazine rappresenti davvero uno stile di vita, più che un mero strumento per informarsi (basti pensare ai casi di Cabana Magazine o di System) quel giornale diventa non solo un mezzo, ma anche un oggetto da sfoggiare, un coffee table book da collezionare, mettere in bella mostra sul tavolino in salotto per far capire a chi entra che tipo di persona siamo, cosa ci interessa, di cosa vogliamo parlare (non ne sono esente neanche io, che nell’editoria lavoro da anni e che sto ancora cercando di capire dove voglio posizionare l’ultimo numero di The passenger dedicato alla Puglia, anche se non lo ho ancora letto). Qui sotto invece la redazione di i-D spiega come proporre pezzi ai giornali, se a questo punto avete voglia di imbarcarvi nell’impresa.

https://www.youtube.com/watch?v=3NWdE3R2UGA (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Quali sono, invece, i dolori e le difficoltà nel lavorare in un ambiente come quello di un magazine indipendente? Prima di tutto, il compenso economico: gli stipendi – esclusi quelli del direttore, forse – non sono stellari neanche nell’editoria tradizionale, ma sono quanto meno garantiti. I magazine indipendenti hanno un budget relativamente basso da allocare al pagamento dei collaboratori, e di conseguenza la scelta di lavorare per loro può essere guidata dalla necessità di inserire nel cv un giornale considerato prestigioso e autorevole, e deve essere necessariamente accompagnata da altri lavori (editoriali o commerciali). Negli anni passati, quando la mia carriera era già avviata, ho deciso di interrompere alcune collaborazioni con giornali di questo tipo, che, per le loro economie, ti richiedevano di scrivere gratis: un lavoro rimane un servizio per il quale è obbligatorio essere ricompensati – anche poco, ma ricompensati – e quella soddisfazione immateriale del “prestigio” per me non era più bastevole.

D’altro canto, è giusto specificare che il modello di business di questi giornali non si basa certo sul loro prodotto cartaceo, che rimane spesso ciò che gli inglesi definirebbero un “vanity project”, bello di certo ma non utile a pagare l’affitto a fine mese. Parallelamente al giornale, che rimane una carta da visita che deve ingolosire potenziali investitori, queste redazioni sviluppano shop online che vendono prodotti (come nel caso di successo di Cabana (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre) o anche di Italy Segreta (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)) e studi creativi collaterali, che realizzano progetti commerciali al fianco di grandi brand, che di quel magazine magari amano l’estetica e vorrebbero vedere il proprio prodotto attraverso quel filtro. Nascono così eventi fisici realizzati in collaborazione, vere e proprie campagne pubblicitarie, ma anche “white label”, ossia prodotti editoriali a uso interno di un brand o di un ente, che sono curati nei loro contenuti da questo studio creativo affiliato al magazine, e che accetta di mettere la sua competenza, in maniera anonima (da qui, white label) al servizio del cliente: giornali aziendali, studi di sostenibilità illustrati con grafiche piacevoli, coffee table book che celebrano uno specifico anniversario e quindi raccontano una storia, e che sono pensati in maniera editoriale nei contenuti e nella cartotecnica (scelta del tipo di carta da utilizzare, fustellatura, rilegatura etc etc). Per questa molteplicità di vocazioni, e per via della redazione snella della quale questi magazine dispongono, è così necessario essere adattabili, e pronti a fare tutto, non solo scrivere articoli dirimenti sullo stato della moda contemporanea (non è più il tempo delle giornaliste radicali alla Cathy Horyn, insomma, anche se è un peccato). Proprio parlando di giornaliste radicali e assolute, qui sotto trovate la Cathy che parla per un’ora dei massimi sistemi con Demna, all’interno di un progetto pensato da La Triennale di Milano.

https://www.youtube.com/watch?v=6rDjj4ZnGsw (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Inoltre, quando sei percepito come autorevole, e quindi catalogato in una dimensione di “purezza” e di resistenza rispetto a chi ha in mano il potere vero e proprio (i brand) diventa mestiere ancora più complesso realizzare sul giornale o sul sito progetti che rechino la dicitura “advertorial” (crasi di advertising ed editorial, a segnalare contenuti editoriali per i quali i brand hanno però pagato). Quando tutto ciò che hai costruito è legato alla tua rilevanza intellettuale, la tua “street credibility”, gli utenti e i lettori guardano con sospetto questo tipo di operazioni (che esistono da sempre, sono normate dall’ordine e sono segnalate di modo che il pubblico sia cosciente del loro lato commerciale): rispettare la propria identità diventa paradossalmente ancora più necessario in questo caso, e si spera che il pubblico si fidi abbastanza di te per lasciartelo fare, senza che questo influisca sulla percezione della tua reputazione, che è come la verginità, impossibile da recuperare una volta perduta. In maniera diversa, ad esempio, la stessa Cathy Horyn ha in passato sfilato per una collezione di Balenciaga: negli anni è diventata estimatrice dello stilista georgiano alla guida del brand fino a qualche mese fa, e tra i due c’era una stima reciproca che ha portato Demna a chiederle di sfilare per lui. Per fugare però qualunque tipo di dubbio sulla indipendenza del suo giudizio, il The cut, giornale per cui Cathy Horyn scrive, ha deciso di assegnare la recensione di quella sfilata a un altro giornalista, che non era coinvolto così direttamente nell’evento. Infine, per concludere questo mini cahier de doléances, al netto della percezione della tua autorevolezza, i brand e i loro apparati comunicazione sono più restii a concederti i loro favori (e quindi il loro investimento in pagine pubblicitarie, che è ciò che mantiene i giornali in vita) quando il magazine non ha uno storico: comprensibilmente, hanno bisogno di percepire che stanno investendo in un prodotto destinato a durare nel tempo. Alcuni uffici marketing dei brand si muovono secondo regole non scritte, che prescrivono la possibilità di investimento pubblicitario solo con giornali che hanno più di 10 anni di vita. Fanno eccezione alcuni brand particolarmente visionari, come il Gucci di Alessandro Michele o anche Bottega Veneta che nel 2021 è divenuto unico investitore di Butt (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre), giornale indipendente dedicato al mondo queer, che aveva chiuso battenti dieci anni prima, concedendogli addirittura nuova vita.

Tornando alla domanda degli inizi: al netto della complessità della situazione, devo cose diverse ai giornali indipendenti e a quelli più noti. I secondi mi hanno dato le basi del mestiere, le regole alle quali attenermi nella scrittura, l’umiltà di rimanere “terza”, mettendo la mia penna al servizio di un prodotto più grande, nel quale la mia visione su una specifica questione era irrilevante. Nei giornali indipendenti invece, ho avuto la possibilità di “dire la mia”, osservando sempre una pacatezza serena, per quanto pungente: fare il giornalista, il critico, vuol dire comunque essere un osservatore di una scena più che un tifoso da stadio. Nel mio specifico caso, l’equilibrio tra questi due estremi mi ha insegnato tutto quello che so oggi (che è comunque un sapere limitato e che necessita di aggiornamenti e stimoli continui) su come usare la propria voce nel giornalismo. Il caso – la fortuna - e i social hanno fatto il resto. Per questo, a chi vuole imbarcarsi in questo mondo, consiglio di sperimentare con entrambi i mondi, alternarli, accoppiarli, sperando che accada il miracolo: quello, nel mezzo di tanti pezzi, committenti diversi, visioni a volte contrapposte, crediti da recuperare di fatture scadute da mesi, di trovare se stessi. Sperando che quella persona sia diventata nel frattempo un giornalista a cui non serve un giornale famoso, per essere (quanto meno) rispettato.

We are the fashion pack

The tortured audio visivo’s department

Official Soundtrack della settimana

https://www.youtube.com/watch?v=apBWI6xrbLY (S'ouvre dans une nouvelle fenêtre)

Brian Wilson, fondatore e cantante dei Beach Boys è morto ieri, a 82 anni. Un genio tormentato che ha sofferto in vita di schizofrenia – vi consiglio di recuperare il bellissimo film del 2014, Love&Mercy, dove il talentuoso Paul Dano interpreta il suo ruolo – è stato comunque capace, in mezzo al dolore e alle tribolazioni, di regalare al mondo lo spaccato più ecumenico e gioioso di tutti su cosa voglia dire essere un ragazzo di Inglewood, California. Le sue canzoni sono note anche a chi non conosce il suo viso, anche a chi vive a Crotone all’ombra del sogno americano. Un lavoro oneroso per il quale si merita tutte le good vibrations possibili, ovunque sia adesso. Grazie Mr Wilson.

Noi ci rivediamo la settimana prossima, sempre qui, e dal vivo, forse tra poco (appena ho notizie più certe, vi comunico). A presto.

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