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S1 E22

LA NEWSLETTER SETTIMANALE DI ANDREA BATILLA

OGNI TANTO CI VUOLE UN PO’ DI POESIA

Robert Mapplethorpe | Calla Lily | The Guggenheim Museums and Foundation
GIORGIO ARMANI

Sei seduto da solo a un tavolino di un bar in un piccolo paesino subito fuori dal mondo. È un piccolo tavolo rotondo con le gambe arrugginite, il piano in formica smangiata di un colore indefinibile. Quando la ragazza del bar ti porta il tuo tè freddo il tavolo traballa come se volesse dirti che lì sopra sono passate tante storie, così tante da schiacciarlo e renderlo zoppicante.

L’aria si sta rinfrescando ma la feroce calura del pomeriggio si rifiuta di andarsene e ti gira intorno come le spire di un serpente indiano, di quelli che si vedono solo nei documentari.

Davanti a te c’è una piccola piazza circondata da edifici che non sono mai stati belli ma che hanno perso anche il vigore della bruttezza tanto sono stati abbandonati. Anche la chiesa sembra lì per caso, solitaria e chiusa, non accoglie nessuno.

Senti il piacere improvviso del tè che si rovescia nella tua gola asciutta e chiudi gli occhi. Pensi al lungo viaggio che ti ha portato lì, a quanto sia stato inutile, lungo e tormentato. Pensi alla pesante porta dell’ospedale e al leggero fruscio quando l’hai aperta. E pensi a quando si è richiusa alle tue spalle, per sempre.

Riapri gli occhi per non affondare e inghiottì il tè gelato con lunghe sorsate che ti lasciano senza respiro, fino a svuotare il bicchiere. Rabbrividisci.

La piazza vuota di persone si incolla al tuo sguardo e ti sembra che sia una descrizione esatta della tua vita, di come è stata e di come sarà.

Non vuoi tornare a Milano, non vuoi risalire in auto, non vuoi mangiare o dormire. Non vuoi respirare. Fissi il pavimento di pietra e ti sforzi di smettere di respirare ma non ci riesci.

Delle scarpe di cuoio marrone, stringate e un pò sciupate. Entrano improvvisamente nel tuo arco visivo fissato verso terra. Senza calzini. Noti questo particolare così fuori contesto, questa nota di eccentricità a cui non capisci che senso dare.

Risali verso i pantaloni di lino grigio, larghi, leggeri spiegazzati, fino alla camicia bianca, aperta fino al petto e alla giacca di lino grigia, come i pantaloni, appoggiata sui bordi della sedia in maniera apparentemente casuale.

Non metti a fuoco il viso in controluce. Strizzi gli occhi e cerchi di riconoscerne i tratti ma non riesci. Il sole è proprio lì dietro e ti acceca.

“Le sono caduti gli occhiali” dice qualcuno, forse a te o forse no. La voce sembra non provenire da nessuna parte, la sua profondità ti tocca. Distogli gli occhi dal sole e ti guardi in giro. Sei costretto ad atterrare di nuovo nella realtà, a muovere il collo, poi il torso, poi le gambe.

“Guardi, sono proprio lì sotto” ti dice la voce e il braccio nascosto dentro la camicia bianca si alza ad indicare un punto.

Vedi i tuoi occhiali e ti chini a raccoglierli ma poco prima di riuscire ad alzarti in piedi senti di barcollare, la gamba destra si piega e tu cadi su un fianco. Cerchi di fermare la caduta con una mano che scivola sulle pietre ancora calde. Un’onda di smarrimento e di dolore ti attraversa e per un lunghissimo momento rimani a terra.

Poi succede tutto in fretta. Ti si avvicina, ti prende una mano, ti mette un braccio intorno alla vita e ti aiuta a sollevarti. Sei in piedi di fronte a lui e riesci finalmente a vedere il suo viso. Ha delle rughe profonde che sembrano tagli, un naso stranamente arcuato e occhi lunghi, neri, attenti.

“Si è fatto male?”

Non sai cosa rispondere perché la tua mano è ancora dentro la sua e il suo braccio ancora stretto intorno alla tua vita. Senti un profumo di fiori bianchi, di sudore maschile e di polvere mescolati insieme. Senti che non vuoi rispondere perché non vuoi che quel momento finisca.

Fai una cosa che non hai mai fatto in vita tua, una cosa di cui ti sei privato da sempre. Metti la tua mano sulla sua spalla, abbassi la testa, fai un lungo respiro. Poi lo guardi e rispondi semplicemente: “Sì. Mi sono fatto molto male. Per molto tempo. Vorrei smettere”.

L’uomo ti guarda incuriosito, allenta la presa. Il suo volto si apre ad un sorriso imbarazzato ma dolce. Prende la tua mano che hai abbandonato sulla sua spalla.

“Mi sembra una grande idea”.

Si siede al tuo tavolo. Anche tu ti siedi. 

La sua camicia bianca è fatta di un cotone leggerissimo e una brezza lieve la muove, gonfiandola poco e poi uscendone veloce.

MAGLIANO

Si scassa tutto. L’acqua entra da sotto la porta, dalle finestre, dal tetto, a fiumi. Giovanni sale sulla sedia, poi sul tavolo. Sente il rumore della pioggia battente, violenta e cieca, e del turbine dell’acqua che non trova posto dove andare e continua a salire. La porta si spalanca, sembra resistere alla corrente ma viene divelta dai cardini e schizza verso la sala, trascinata in un cumulo di fango che raschia le pareti e ricopre tutto.

C’è solo caos, niente altro. Vortici di vestiti sporchi nella melma, tazzine frantumate che sbattono contro pezzi di spazzatura indifferenziata. Un odore acre di bagnato mescolato a benzina, a terra, a cemento. 

Giovanni non sta pensando, sta reagendo. Salta sul piano della cucina ancora asciutto. Sbatte con la testa contro al lampadario, si ferma, barcolla. Sta per cadere ma si aggrappa allo sportello di un pensile che, stranamente, regge il suo peso. Apre la finestra davanti a lui. Vede solo acqua che si muove, a perdita d’occhio. Veloce, lenta, schiumate, forma vortici, accelera, frena, si scontra con sé stessa. Quella che viene dal cielo incontra quella sulla terra, sembrano riconoscersi e la loro intensità cresce ogni minuto di più.

Giovanni mette la testa fuori dalla finestra. Lì a destra c’è un traliccio di ferro dove prima c’erano delle rose rampicanti Etoile de Hollande, di un colore rosso sangue. Strappate via. Quei pezzi di ferro portano al secondo piano e poi al tetto. 

Una mano, poi un piede, poi un’altra mano e un’altro piede. È una salita senza senso spinta dal terrore di cadere e essere mangiato dal fiume straripato, quello che fino a ieri era un amico.

L’elettricità che parte dal cervello e arriva ai suoi occhi, ai muscoli delle braccia e delle gambe, alla pelle, gli impedisce di pensare a Cristina, a sua madre Maura, a suo fratello Cosimo. Sta dentro la sopravvivenza. Non esiste nessun altro, niente altro.

Scivola. È un momento in cui il piede perde presa, la gamba si allontana dal muro, trascina con sé il corpo. Il peso strattona i polsi che mollano la presa. Giovanni cade nell’acqua urlando.

I movimenti dentro un fiume in piena non si possono controllare. Giovanni schizza lontano dalla casa in un attimo. È sommerso per lunghi attimi, pezzi di cose sbattono sulla sua testa, sulla schiena, sui polpacci. Pensa di morire. Poi riemerge sforzandosi di usare le braccia. Ha una trattoria velocissima, non sa verso dove.

Vede chiaramente un albero. Spoglio, piantato in mezzo al fiume d’acqua, immobile. Apre le braccia e nuota. Sono secondi, gli sfugge. Si sente trasportato via di nuovo.

Sbatte contro qualcosa. Urla dal dolore. È un’altro albero. Tenta di aggrapparsi ma la mano sinistra non si muove più e dalle costole arriva un dolore acuto che non gli permette di respirare. Usa l’altra mano per afferrare un ramo, poi le gambe per innalzarsi sopra il livello dell’acqua e salvarsi. È in mezzo a due grossi rami, si sente in bilico, continua a piovere e l’acqua sotto di lui è nera.

La stanza è chiara, pulita, di un colore cremoso, appena lucido. Le lenzuola sono fresche, non ci sono rumori. Dentro la testa di Giovanni batte un martello pneumatico, le narici bruciano, le costole sembrano volersi frantumare, la mano sinistra è fasciata e dolorante. Sa di essere vivo, poi gli occhi si chiudono e si addormenta.

Riapre gli occhi chissà quanto tempo dopo. È notte. Una luce illumina debolmente la stanza. Dal suo braccio sinistro esce un tubicino di plastica che si va ficcare dentro una sacca trasparente piena di un liquido chiaro. Proprio vicino al letto c’è un armadio con una porta semi aperta. Appesi a delle grucce, in perfetto ordine, ci sono i suoi vestiti. Qualcuno li ha lavati, li ha stirati e poi li ha messi dentro l’armadio. Sui pantaloni di tela di cotone c’è un lungo strappo che è stato accuratamente rammendato. È quasi invisibile. Vicino c’è la t-shirt di cotone e poi la camicia di seta, irrepararabilmente macchiata ma linda. 

Il dolore si è fatto più lieve e alle sue narici secche arriva un leggero odore di sapone di Marsiglia e di appretto.

PRADA

Trovava che ci fosse una necessità di fondo ancora da scandagliare. Qualcosa di profondo, di nuovo magari. Ci si inventa di tutto ai giorni nostri e lui non riusciva più a inventarsi niente. Ci aveva provato con quella contorsionista che riusciva ad arrotolarsi su se stessa diventando un cerchio perfetto. Poi c’era stata la compagnia di canto tirolese che aveva incontrato in un paese al valico tra Italia e Austria. Cantavano bene ma dopo un pò avevano cominciato ad annoiare gli spettatori.

Anche il prestigiatore per un certo periodo aveva attratto folle insperate ma poi era fuggito con una delle cuoche del castello di Werheimen.

Dentro il suo piccolo tendone, piantano subito fuori Reggstein, nel distretto di Hoffmansthal, erano passati tanti artisti. Alcuni avevano avuto grande fortuna, altri non sapeva più che fine avessero fatto. Tra il 1864 e il 1867 aveva guadagnato bene ma non era riuscito a mettersi da parte quasi niente. Martha voleva vestiti nuovi ogni stagione e una volta era stato costretto a sborsare duemila franchi per il modello di un abito che veniva direttamente da Parigi e che era stato cucito e ricamato da alcune sarte di Ginevra. Ma i soldi andavano quasi tutti alla produzione degli spettacoli che lui voleva fossero perfetti, magici, impossibili da dimenticare.

Si sentiva solo, con il peso del mondo sulle spalle.

Fare divertire la gente era sempre più difficile. I coniugi Ternois erano arrivati a prendere nani e donne barbute ma a lui quelle cose non erano mai piaciute. Troppo volgari, stupide, penose. A lui piaceva mettere insieme spettacoli impensabili, usando le ombre create dalle lampade a olio sulle grandi quinte di lino bianco, la musica di quattro violini e un organetto, fino anche ai profumi che lui stesso distillava usando mughetti e gelsomini e che spargeva sugli spettatori adoranti e sorpresi.

Ma improvvisamente era tutto finito. Sembrava che le persone volessero emozioni più forti. Uno spagnolo lì vicino aveva fatto una fortuna con i combattimenti di galli, un’altro con una specie di lotteria settimanale in cui si vincevano unguenti miracolosi. Poi c’erano le maghe che leggevano il futuro, i saltimbanchi che berciavano racconti sconci sui politici svizzeri e un folto gruppo di attori e musicisti da strapazzo. Ognuno di loro, ogni giorno, gli rubava spettatori.

Dentro la sua vecchia casa di legno su ruote stava seduto a una piccola scrivania, illuminata da due candele. Guardava fuori dalla finestra aperta, verso il tendone e pensava. 

Dal bosco intorno non veniva nessun rumore, sentiva solo il respiro affannoso di sua moglie provenire dal letto dietro la porta. 

Quando uscì di casa stava albeggiando. Il cielo lattiginoso si tingeva di un rosa chiarissimo e gli oggetti cominciavano a riprendersi il proprio colore, ancora mezzi addormentati, incerti se aprire gli occhi per affrontare la giornata. Tutto aveva speranza, tutto poteva ancora non affondare dentro un’altra giornata fatta di niente.

Raccolse da terra le lampade a olio che aveva riempito la sera prima. Una dopo l’altra le gettò contro il tendone, fatto di una stoffa di cotone pesante. Poi prese una delle torce che usava per illuminare l’entrata agli spettacoli notturni e la lanciò in mezzo ai cocci delle lampade.

Prese tutto fuoco velocemente. Il cotone secco e sdrucito si illuminò come fosse vivo, i pali di legno caddero su sé stessi, le corde si sfilacciarono e la struttura collassò senza quasi fare rumore.

Intorno i riflessi arancioni si muovevano, esplodevano, si ritiravano, poi si riaccendevano. Il calore avvolgeva le sue mani e il suo volto e per un attimo pensò che avrebbe potuto gettarsi tra quelle fiamme. Ma non lo fece.

Mentre il fuoco si alzava sempre più alto fu costretto ad allontanarsi e vide quello che aveva fatto. Chiuse gli occhi, li riaprì, respirò profondamente aria calda mescolata a fuliggine. Tossì.

Il fuoco aveva svegliato sua moglie e i suoi due figli, aveva richiamato gente. C’era una folla che guardava, vociava, si allarmava ma non faceva niente. Presto ci furono solo dei pezzi di legno anneriti, carbonizzati dal fuoco e nell’aria un odore acre di fumo. Niente altro. Il sole era apparso in mezzo a un cielo limpido, di vetro. Lui stava lì, fermo, a guardare. Ogni cosa aveva finalmente assunto il proprio colore.

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