Passa al contenuto principale

S1 E23

LA NEWSLETTER SETTIMANALE DI ANDREA BATILLA

FASHION WEEK UOMO PE 2026

Questa stagione (sarà così anche a Settembre per la donna) ho deciso di fare qualcosa di diverso ma anche molto semplice.

Si tratta di una superclassifica di quasi tutti i brand che hanno sfilato o presentato durante le fashion week dedicate all’uomo.

Come ogni classifica, sono messi in ordine dal migliore al peggiore. Anzi da quello con più senso a quello con meno.

I brand che non trovate sono, come dice il nome, fuori classifica.

1. Junya Watanabe

Se esistesse da qualche parte un corso di filosofia della moda, dovrebbero fare un monografico su Junya Watanabe. Quando tutto sembra perduto (come in questa stagione di sfilate maschili), Watanabe è qui a ricordarci che non solo è ancora possibile fare bei vestiti ma è anche necessario metterci dentro un significato, una narrazione che abbia un senso. Questa collezione è cominciata con una serie di giacche formali in tessuti da arredamento ed è finita con un gruppo di giubbotti di ispirazione workwear con gli stessi tessuti. In mezzo si è distillata una possibile via per unire i poli opposti del guardaroba maschile classico con quello del gigantesco mondo dello streetwear, cioè una roba che storicamente viene dall’alto con una che viene dal basso, anzi bassissimo.

Junya ci sta dicendo che esistono dei principi fondamentali dai quali non si può sfuggire che riguardano il genere maschile e la sua apparente fissità. Ma ci dice anche che in questo momento si sta facendo un percorso integrale di rielaborazione di questi principi in una maniera tranquilla, pezzo per pezzo, senza spaventare nessuno. Il tema della stagione, tornare a parlare una lingua comprensibile a tutti, qui trova la sua espressione più alta. 

Highlight: La maglia jacquard con il disegno della casetta nella prateria che strappa un sorriso anche nei momenti oscuri.

2. Craig Green

Craig Green è uno dei più grandi talenti del menswear contemporaneo. Abbastanza stranamente nessuno ha mai pensato di dargli una direzione creativa, tranne Remo Ruffini che lo ha fatto partecipare al progetto Moncler Genius. Allievo di Walter van Beirendock, da lui ha preso la giocosità grafica, bambinesca, naif, che è riuscito però a trasformare in collezioni compiute, con uno sguardo adulto e maturo sul guardaroba maschile. Questa stagione, una delle sue più riuscite, ha fatto un ulteriore passo avanti verso una cosa che per i designer inglesi rimane complicatissima: la commerciabilità. Guardando con attenzione il lavoro di Green si capisce quanto sia arrivato a toccare la carne viva della storia bicentenaria dell’abbigliamento maschile, rendendola duttile e anche in questo caso, finalmente, comprensibile. Craig Greene si è dimenticato gli intellettualismi eccessivi e ha provato ad aprire varchi che un uomo di oggi sia in grado di attraversare. Nel caso lo facesse, dall’altra parte potrebbe trovare un campo giochi colorato e vagamente infantile, dove tutte le attività sono accessibili e divertenti. Il racconto di Green è un inno alla gioia di essere uomini e di essersi lasciati alle spalle i pesi e gli errori della storia.

Highlight: Il total look flower-power, espansivo, esagerato e pacifista.

3.Magliano

Guardare Maglianic, il film diretto da Thomas Hardiman con cui Luca Magliano ha presentato questa collezione, mi ha ricordato qualcosa. Solo adesso, quando l’ho rivisto, ho capito cosa. Era il film con cui Alessandro Michele ha raccontato la sua pre-collezione Primavera 2016 per Gucci. Girato da Gia Coppola a New York, si chiamava Il mito di Orfeo e Euridice.

In realtà i due film non hanno assolutamente niente in comune, tranne il fatto che raccontano con estrema precisione visiva l’universo simbolico che struttura un brand. Quasi dieci anni dopo le prime, esplosive collezioni di Alessandro Michele, Magliano racconta con precisione millimetrica un mondo che si sta spostando per andare non si sa dove e che ha molte meno certezze.

È un viaggio pieno di personaggi assurdi che dicono cose apparentemente senza senso e delle cui storie non consociamo la fine. È il racconto di personalità eccessive, caratterizzate, iperrealiste e in qualche modo alla deriva.

Sono anime riunite dal caso che insieme costruiscono un universo di diversità, di raccoglimento, di comprensione. Il mondo di Magliano è sbeccato, graffiato, scolorito, arrugginito ma, attraverso le crepe, mostra un indice di verità che è impossibile trovare altrove.

Highlight: Il look sdrucito da professore di filosofia marxista al bar del paese.

4.Sacai

Chi vuole un’analisi veramente chirurgica di ogni pezzo del guardaroba maschile deve prendere un aereo per il Giappone e andare da Sacai e dalla sua inventrice, Chitose Abe. I giapponesi sono stati i primi a ripensare prima lo streetwear americano e poi il formale europeo, tra gli anni ’60 e ’70. Quella cultura che, per esempio, è arrivata a produrre i migliori denim al mondo è la stessa che nutre Sacai. Ci si potrebbe domandare come mai raramente un occidentale riesca a sviluppare un pensiero così lucido su una cultura che gli appartiene e come mai invece riesca così bene a chi sta distantissimo da Europa e Stati Uniti. La risposta è che lo sguardo progettuale giapponese è estremamente intellettuale e ha un approccio da entomologo: prima studia e cerca di capire i principi e poi crea trovandone una sintesi. È una cosa che gli occidentali fanno molta fatica a fare, probabilmente perché troppo vicini alla materia. Ma anche al metodo.

I questa collezione, così semplice ed elegante, sono rappresentati e rielaborati tutti i topoi del vestire maschile e guardarla (oltre che indossarla) è rinfrancante, liberatorio. Chitose Abe ha la capacità di distillare materiale vecchio di secoli e farlo diventare un raffinatissimo racconto del quotidiano. Anche se è nuovo, ha le valenze simboliche di ciò che è già un classico.

Highlight: Il suit in cotone pesante in collaborazione con Carhartt di cui non sapevamo di avere bisogno.

5.Dior Men

Non sapevo a che punto della classifica mettere la prima sfilata di Jonathan Anderson per Dior. L’ho riguardata molte volte perché c’era qualcosa che mi attirava molto e qualcosa che trovavo detestabile. Poi ho capito.

L’idea, che si vede soprattutto dallo styling, di underdressing, di scazzo, di casualità quotidiana è interessante se portata su un marchio come Dior.

Non provarci, non voler sembrare troppo vestito, non avere addosso roba che sembra nuova, sono i mantra del dandismo intellettuale di Anderson che ha proclamato la volgarità dei total look, dei loghi, dei capi riconoscibili. La volgarità del voler sembrare ricchi. Anche l’ormai famosissimo cappotto da 200.000 dollari sembra fatto con un normalissimo tweed e non ricamato a mano con un filo d’oro.

È un tentativo di uscire dalle forzature della moda uomo contemporanea (quiet luxury compreso) e ristabilire dei codici base che sono talmente semplici da essere diventati irraggiungibili.

Questo non vuol dire che Anderson, insieme all’über stylist Benjamin Bruno, abbiano fatto una cosa rivoluzionaria. Hanno probabilmente fatto il contrario. Qui lo sforzo è portare alla disintossicazione visiva e riportare l’attenzione al prodotto, esattamente come ha fatto Watanabe. In questo rifiuto dell’eccesso è compreso anche un allontanamento dall’intellettualismo e dal minimalismo imperanti che lo stesso Anderson ha frequentato da Loewe.

Un messaggio che in pochi hanno capito perché questo tipo di mediocrità vestimentaria, di quotidiana normalità è diventata per tutti la cosa da cui fuggire. 

È invece probabile che una bellissima camicia a righe e un paio di jeans altrettanto belli siano in realtà un racconto molto profondo.

Highlight: Il look da preppy boy, bravo ragazzo, anni ’80.

6.Giorgio Armani

Esiste un prima e un dopo Giorgio Armani nella storia del menswear e adesso che tutti stanno pagando pegno, la questione è ancora più evidente.

Le giacche che si appoggiano morbide sulle spalle, i pantaloni leggeri e ampi, i tessuti luminescenti, i colori invisibili. È un linguaggio che Giorgio Armani ha reso popolare dalla fine degli anni ’70 e che in questo momento sembra risuonare di più, forse perché abbraccia le necessità di un maschile stanco di essere sottoposto a pressioni secolari.

Il guardaroba di Armani è di fatto liberatorio perché non ha la rigidità dell’uniforme ottocentesca e perché comunica una spensieratezza vacanziera e erotica anche quando parla di occasioni formali o lavorative.

È la ricetta perfetta che è però ancora lontana dall’essere adottata da molti in maniera consapevole, magari perché insieme a un suit in lino andrebbero venduti dei cicli di analisi.

Mentre aspettiamo che l’uomo medio accetti di essere qualcosa di cangiante, duttile e anche un pò misterioso, possiamo perderci dentro un film in cui essere morbidi è un pregio.Non un difetto.

Highlight: Il suit oversize senza tempo.

7.Wales Bonner

Grace Wales Bonner rappresenta quel ristrettissimo gruppo di designer indipendenti con il talento per prendersi il carico di una direzione creativa e che invece scelgono di rimanere indipendenti. Nel panorama di oggi sono strani oggetti non identificati che immagino abbiano un giro d’affari basso ma che sopravvivono anche grazie ad una serie di collaborazioni. In effetti paragonare questo tipo di progetti con i mega brand del lusso è abbastanza inappropriato. Li divide l’incommensurabile distanza dei fantastiliardi a disposizione. Ma è anche interessante notare come esista una vita al di fuori di LVMH e Kering e spesso è molto interessante.

Grace Wales Bonner ha un modo iperrealista di raccontare il quotidiano. Non cerca la poesia, il romanticismo, il finale consolatorio. La sua è un’attenta fotografia del reale, senza falsi intellettualismi, che sta in linea con la ricerca dell’essenzialità di cui ho parlato per Watanabe e per Dior.

Anche qui c’è pochissima costruzione e molta sincerità. Vorrei dire onestà. E anche qui c’è una riflessione sulla necessità di tornare ad un linguaggio comprensibile, di riavvicinarsi alla cultura dell’abbigliamento maschile per fare un passo verso quegli uomini che sono ancora troppo spaventati per cambiare.

Highlight: Il frac perfetto ma imperfetto per serate indimenticabili.

8.Hed Mayner

Hed Mayner è uno di quei talenti meno noti che, pur avendo un’estetica estremamente riconoscibile, ogni stagione riesce a ricavarsi uno spazio per aggiungere nuovi pezzi al suo linguaggio.

Poeta dell’oversize esagerato, anche lui questa stagione ha deciso di alleggerire e semplificare, probabilmente per fare arrivare il suo messaggio in maniera più incisiva. Molti pezzi sono molto più vicini del solito a un guardaroba quotidiano e per questo risultano più credibili. Altri, quelli stampati, sono invece più astratti e mantengono una narrazione favolistica che è il tratto distintivo di Mayer.

Nel complesso anche da queste parti è in atto una significativa riscrittura di quello che gli uomini avranno o potranno avere nei loro armadi. Un lento ma progressivo allargamento di codici polverosi che, anche grazie al lavoro di designer come Mayner, si stanno piegando al cambiamento dei tempi.

Highlight: Jeans + camicia bianca + maglia blu + trench come uniforme quotidiana per eccellenza.

9.Niccolò Pasqualetti

La prima sfilata uomo di Niccolò Pasqualetti è stata estremamente interessante. Per quanto nella sua estetica ci sia ancora qualcosa di studentesco e di incompleto, Pasqualetti è uno che esplora l’idea di abito con una grande libertà ma anche con un grande senso di rispetto. Ogni capo è estremamente complesso da un punto di vista di costruzione e di materiali ma l’impressione che rilascia è di semplicità, a volte quasi di anonimato. Questa parola, anonimato, che sembra stare all’opposto della creatività sarà un ingrediente essenziale dei prossimi tempi per riguadagnare la fiducia dei consumatori fuggiti.

Ovviamente anonimato non è la prima parola che viene in mente guardando il lavoro di Niccolò ma all’interno di una visione laterale, indipendente e autoriale della moda, il suo messaggio sta da quelle parti.

Siamo in un momento di rifiuto di ciò che è nuovo, o per meglio dire diverso, e molti designer giovani lavorano di proposito sulla linea di confine tra banalità e creatività.

È un gesto di sopravvivenza ma anche di esplorazione di territori non osservati da molto tempo.

Highlight: Il giaccone in pelle invecchiata oversize come ragione di vita.

10.Setchu

Satoshi Kuwata è uscito dalla sua comfort zone fatta di intellettualismo giapponese e si è lasciato travolgere dalla cultura centro africana usandola, più che come ispirazione, nel senso di una spinta verso nuovi territori, anche fisici. L’artigianato locale dello Zimbabwe mescolato con l’utility wear americano, il richiamo al colonialismo e i colori accesi degli abiti contemporanei africani sono un modo straordinariamente intelligente di parlare di culture non occidentali senza depredarle, senza riprodurne esattamente i sandali, dimenticandosi di dire da dove vengono.

È anche interessante come un approccio progettuale minimalista possa aprirsi al colore e alla decorazione senza dimenticare le proprie radici. Ed è anche interessante vedere come il concetto di alterità sia rappresentato da una persona che per nascita non appartiene alla cultura occidentale ma la conosce molto bene.

Highlight: La giacca formale da colonialista sopra il pareo fluo per dare un senso a quello che per decenni è stato banale styling.

11.Mordecai

Ludovico Bruno, designer di Mordecai, vive in una realtà alternativa in cui tutto è morbidamente pacificato. Forse non ama i conflitti, forse ne ha avuti troppi e li vuole cancellare. Il risultato è un mondo in cui non esistono gli spigoli, i contrasti, l’aggressività, il volume troppo alto o gli atteggiamenti violenti. 

Eppure la radice del suo lavoro deriva dalle uniformi delle arti marziali, nello specifico quelle del Judo. Questo sport ha una storia estremamente affascinante che ha a che vedere con la fine dello shogunato, la messa al bando dei samurai armati, l’arrivo degli occidentali nei porti giapponesi e in generale la riscrizione di una tecnica di combattimento e di offesa in una di difesa legata ad ideali pacifisti. Judo in giapponese vuol dire via della cedevolezza

Da tutto questo materiale Bruno ha tratto un’estetica che parla a uomini (e donne) che si tengono a distanza dai codici tradizionali del vestire ma che vogliono essere visibili. Forse perché sanno che stanno dicendo, coi loro vestiti, qualcosa di diverso.

Highlight: Il completo in gessato pacificato.

12. Saint Laurent

Quella di Anthony Vaccarello per Saint Laurent è probabilmente la più bella collezione della stagione ma, come sempre nel suo caso, ha una rilevanza estremamente limitata. Saint Laurent è un marchio che vende borse con loghi giganteschi a signore della media borghesia ma per trovare la Loulou in pelle trapuntata bisogna scorrere molto, molto in fondo alla sezione borse del sito ufficiale.

Ciò che Vaccarello e la sua partner in crime, Francesca Bellettini, preferiscono fare è elaborare sfilate-sogno che gli addetti ai lavori adorano e che contribuiscono a tenere alto l’interesse verso il brand. In questo modo però Saint Laurent risulta spaccato in due unità molto distanti tra di loro, seguendo una regola del marketing vecchia come il marketing stesso.

Siamo in un momento, come stiamo vedendo, in cui è necessaria una forte dose di realismo per riconquistare la fiducia dei mercati e dei clienti. Sicuramente questo realismo passa anche per prezzi più umani, ma principalmente dovrebbe radicarsi in un’attenzione maggiore alla portabilità, all’occasione d’uso, alla praticità, alla vita vera.

Ecco. Da Saint Laurent siamo meravigliosamente distanti dalla vita vera. 

Highlight: Il suit amaranto per vivere in una dimensione trascendente.

13.Martin Rose

Martin Rose è una detective del quotidiano, indaga ciò che si annida nelle pieghe più recondite dell’estetica dell’abbigliamento. Guarda a come si veste lo spacciatore sotto casa, l’immigrato clandestino, il giovane impiegato delle poste o l’aspirante giocatore di calcio. È un’umanità che non ha raggiunto una realizzazione personale e che forse non la raggiungerà mai ma che riesce a sopravvivere in un equilibrio instabile ai limiti della società.

Insieme a Grace Wales Bonner è una delle poche designer donne che disegnano con successo collezioni di menswear ed è anche la prima ad aver rivolto lo sguardo a uno strano mix tra formale e sport attivo che è poi diventato, per esempio, uno dei cardini dell’estetica di Balenciaga (da cui lei ha lavorato).

Il problema con Martin Rose è la sua mancanza di evoluzione. Non si vede come il suo discorso possa arrivare a crescere e incorporare significati più ampi che vadano oltre la descrizione della realtà. Il passo di Demna è stato quello di criticare il reale. Martin Rose dovrebbe probabilmente pensare a fare la stessa cosa, dal suo punto di vista.

Highlight: L’active sport come ragione di vita.

14.Dolce & Gabbana

Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono una specie di barometro vivente di quello che succede nella moda a livello di tendenze. Fiutano, osservano e poi sintetizzano. Questo non vuol dire che copino ma che, pur mantenendo uno stile preciso, si assestano su ciò che funziona nel mercato. Questa collezione fatta di pigiami oversize, stranamente, non è in sync con una frenata generale nei confronti dell’idea stessa di tendenza. Quindi guardandola dopo Dior, Vuitton o Wales Bonner, per esempio, sembra molto lontana da quello che sta per succedere o che sta succedendo.

Le collezioni di Dolce & Gabbana rappresentano l’essenza di ciò che ci si aspetta da un marchio italiano: qualità, moderato estro creativo, portabilità e una buona dose di piacere tattile e visivo. Tutto proiettato in maniera soft dentro lo scenario delle tendenze attuali.

Questa sfilata va in quella direzione ma rimane il tocco troppo acceso dell’identità del marchio, nei pigiami troppo colorati, nelle giacche troppo oversize, nelle rigature troppo violente.

In questo momento è come se i marchi avessero bisogno di sparire, di raccontare meno. Questo perché il sentiment nei confronti del lusso e delle sue dinamiche non è esattamente positivo.

Apparire immediatamente identificabili è un peccato mortale. Sarebbe interessante vedere come Dolce & Gabbana possano essere capaci di esplorare l’idea di anonimato.

Highlight: Il pigiama ricamato per quando vuoi farla veramente grossa.

15.Dries Van Noten

Julian Klausner ha presentato la sua prima collezione uomo come direttore creativo di Dries van Noten, dopo che il fondatore ha lasciato l’incarico. Klausner è evidentemente un amante di Miuccia Prada, Raf Simons e Olivier Rizzo, il trio attualmente dietro Prada. Si vede dallo styling scarnificato, da un gusto dei colori piuttosto livido e da un’attitudine intellettuale, fintamente nonchalante. Lo styling dello show è infatti passato dalla romanticissima Nancy Rohde al molto meno romantico Robbie Spencer. Meno romantico ma più contemporaneo.

Tutti questi elementi, che sono piaciuti tanto a tutti, non hanno mai fatto parte della storia di Dries Van Noten. Ma è anche vero che da qualche parte Klausner doveva cominciare per appropriarsi di un marchio ancora così tanto identificato con il suo creatore.

Temo però che dietro questo tipo di operazioni ci sia un’ansia da coolness mal gestita, cioè un tentativo di rimettere piede nel radar dei brand che dicono qualcosa di nuovo, senza sapere bene come.

Dries è un marchio che è sempre stato ai margini, che ha continuamente sostenuto una visione poetica e decorativa che da molti sarebbe definita vecchia. Anche in tempi di intellettualismi, Van Noten ha disegnato camicie e vestiti a fiori, facendo romanticamente sfilare modelle e modelli su tavole imbandite.

Trovare la propria strada è difficile, soprattutto quando un marchio è così recente. Temo però che Klausner debba scavare un pò più a fondo per vedere la luce.

Highlight: Camicia bianca, pantaloni kaki e mega pareo è una strada interessante.

16.Louis Vuitton

Pharell si è dato una grande calmata e ha deciso di esplorare un tipo di abbigliamento incredibilmente semplice. Per quanto, in teoria, la collezione di Louis Vuitton uomo fosse ispirata ad un suo viaggio in India, nella pratica era non solo un allontanamento dal mondo dello streetwear e della decorazione ma un’aperta negazione di tutto ciò che Virgil Abloh aveva costruito e che improvvisamente sembra improponibile.

La domanda da farsi è per quale motivo quell’universo chiassoso e fortemente simbolico, direttamente riferibile alla cultura nera, sia improvvisamente passato di moda.

La risposta sta nella differenza tra un designer e un direttore creativo capitato lì per caso. Un designer ha la necessità impellente di raccontare storie e vuole essere ascoltato. Spesso sono storie scomode e altrettanto spesso la gente è distratta. Il direttore creativo at large invece tenta semplicemente di stazionarsi sul confine tra mercato e edginess, senza dare fastidio a nessuno.

Questo è quello che ha fatto e continuerà a fare Pharell. Non ci sarebbe niente di male se il suo predecessore non fosse stato il rivoluzionario che è stato e che manca a tutti molto.

Highlight: La riproduzione delle valigie fatte da Marc Jacobs nel 2006 per The Darjeeling Limited di Wes Anderson.

17.Prada

Purtroppo da Prada non sta funzionando niente. Non so se il sodalizio Raf-Miuccia sia alla fine o se sia solo un momento di confusione ma questa collezione rappresentava una mancanza di senso così profonda da lasciare perplessi.

Anche Jonathan Anderson ha lavorato sulla semplicità, la facilità, la normalità ma esercitando su sé stesso uno sforzo enorme per non apparire intellettuale, cervellotico. Qui invece siamo ancora alla maglia di merino portata sulle mutande con calze e mocassini. Tanto irreale quanto già visto.

Come del resto è già visto tutto quello che ha sfilato.

Qui c’è un unico grande problema: Miuccia e Patrizio pensano veramente che sia sufficiente fare rieditare quello che è già stato fatto?

O stanno cominciando a pensare che prima o poi bisognerà ricominciare a dire qualcosa di nuovo?

Highlight: Il completo da week-end in veliero intellettuale.

18.Kenzo

Nico è una delle figure chiave della storia dello streetwear, mentre il design director di Kenzo, Joshua Bullen, è stato per 11 anni da Stone Island e poi da Givenchy con Matthew Williams. Entrambi si stanno occupando di un marchio che ha perso una ragione di esistere da un pò di tempo.

L’ultimo momento di folgorazione collettiva è stato quando il duo di Opening Ceremony, Carol Lim e Humberto Leon, ne aveva preso le redini rendendolo appealing a un pubblico super giovane e riportando il marchio ai fasti degli anni ’80. Ma LVMH non è stata in grado di sfruttare quel momento forse perché, come fascia prezzi, Kenzo non può considerarsi lusso e fa parte di una categoria con cui nel gruppo c’è poca familiarità, la fascia media del prodotto, detto anche contemporary.

Detto ciò, Kenzo è un mistero. Le collezioni non hanno semplicemente nessun senso ma il progetto viene tenuto in vita come per inerzia, come un elettrodomestico che ci siamo dimenticati acceso ma che con il passare delle ore si surriscalderà e poi si romperà.

Immagino che nel mondo ci siano bravi designer di streetwear ma nessuno pare cercarli da queste parti o, peggio, nessuno pensa che un progetto così possa avere un futuro.

Highlight: La camicia stampata papaveri, unica vestigia del lavoro di Kenzo Takada.

19.Rick Owens

Quando decidi di fare una retrospettiva sul tuo lavoro, cioè una celebrazione di te stesso, vuol dire che è probabile che tu non abbia più niente da dire.

Il mondo goth di Rick Owens non rappresenta più una subcultura ma un’estetica che è così ampia ed elastica da contenere clienti diversissimi che probabilmente il goth non sanno neanche cosa sia.

Da un pò di tempo le sue sfilate/performance sono ripetitive e il suo spirito ribelle sembra impantanato dentro una noiosa ripetizione di certi stilemi. Forse è normale e forse è anche giusto.

Eppure da uno che ha costruito la sua folgorante carriera sul concetto di dissacrazione ci aspettiamo una periodica riscrittura della sua storia. Invece questa volta Owens ha fatto atterrare la collezione in un territorio più commerciale e nonostante le coreografie pirotecniche si sono visti vestiti incredibilmente portabili.

Sono tempi difficili per tutti ma se togli la carica eversiva e innovativa da Rick Owens è probabile che rimangano solo dei bei vestiti, difficili da distinguere da altri bei vestiti.

Highlight: L’outfit total black che normalizza il goth.

20. Comme des Garçons 

È da tanto tempo ormai che le collezioni di Rei Kawakubo sono diventate semplice artigianato e hanno smesso di raccontare storie. Il suo mito di icona/idolo/simbolo di una creatività che fu e che non sarà mai più le permette di rimanere in un limbo in cui tutti fanno finta che il suo lavoro sia ancora rilevante. La verità è che dagli anni ’90 è radicalmente cambiato il concetto di esplorazione creativa perché i designer hanno capito che non può non avere più nessun seguito commerciale. Se 30 anni fa le persone andavano effettivamente in giro vestite Come des Garçons dalla testa ai piedi anche a Trezzo d’Adda, oggi non è più così e per distinguersi si usano altri codici.

Quella che vediamo è archeologia della moda fatta usando una grande cura ma si ferma lì. Non interagisce più con il presente.

Comme des Garçons nel frattempo è un progetto di retail che si chiama Dover Street Market che vende tonnellate di Jacquemus e di decine di sottobrand che si chiamano Shirt o Play e che accontentano quelli a cui basta una t-shirt con un cuore per sentirsi alla moda.

Rei Kawakubo porta avanti un progetto che ormai è curatela museale e dovrebbe forse arrivare a fare un passo indietro per lasciare libera un’area che lei ha giustamente occupato militarmente dagli anni ’80 ma che nel tempo è diventata un territorio in cui fare crescere talenti che non hanno più bisogno di una madre.

Highlight: La giacca a buchi testimone di un tempo che fu.

21. Willy Chavarria

Willy Chavarria ha avuto un successo esplosivo nel giro di poco tempo. Pur avendo 56 anni e una grande esperienza come design director di Calvin Klein, è stato accolto come l’unica cosa nuova successa a New York negli ultimi tempi.

In effetti il suo punto di vista è interessante perché non solo non è allineato con il gusto mainstream ma anche perché, come in questo caso, porta forti messaggi politici. L’inizio di questa sfilata era infatti una teatralizzazione di come vengono trattati i prigionieri che stanno per essere rimpatriati perché entrati negli Stati Uniti illegalmente.

Sarebbe tutto molto bello se non fosse che questa profondità di contenuto è invisibile nei vestiti che giocano la carta dell’indie ma sono in realtà piuttosto tranquillizzanti. Essere antisistemici è un affare duro e per farlo bisogna sputare sangue, come fanno Magliano, Martin Rose o Grace Wales Bonner. 

Da queste parti non solo non c’è sangue ma c’è molta spettacolarizzazione di temi che meriterebbero più profondità.

Highlight: L’outfit da week-end che sarebbe bellissimo se fosse di Ralph Lauren.

22. Lemaire 

È quasi disturbante come l’estetica di Lemaire, disegnato da Christophe Lemaire e Sarah Linh-Tran, fino a poco tempo fa intellettuale e di nicchia, sia diventata incredibilmente mainstream. Il brand è stato uno dei grandi apripista di questo tipo di stile che una volta era associato ai galleristi di Chelsea e si è posizionato perfettamente in un mercato stanco di streetwear ma anche desideroso di cancellare ogni segno di appartenenza a qualcosa o a qualcuno.

Qui ci sono vari problemi. Il primo è che il minimalismo radicale è arrivato a Zara passando per Officine Generale e Totême. Questo vuol dire che ormai sul mercato esiste un’offerta indistinta a tutti i livelli di camicie in popeline di cotone oversize grigio cemento. Il secondo è che in Lemaire non c’è evoluzione, anzi la narrazione è rimasta pressoché la stessa anche se il suo significato è cambiato. Chi si veste così oggi è il borghese medio alto, quello che non si fa domande, che non cerca risposte e che vuole sentirsi socialmente accettato.

Questo è un raro caso di brand che è in realtà uno stile e che pare non avere altre proprietà. Tutto bellissimo finché lo stile non passa di moda.

Highlight: Quando tutto è così minimale da essere anonimo.

Argomento REVIEW

0 commenti

Vuoi essere la prima persona a commentare?
Abbonati a LA MODA È UNA COSA SERIA e avvia una conversazione.
Sostieni