Il mukbang alimenta solo chi guarda?
Anche se sono vegetariana e tendenzialmente astemia, l'algoritmo di Instagram e TikTok non smette di riservarmi sorprese proponendomi fedelmente contenuti che, tornando idealmente indietro nel tempo e precisamente nel 1532, anno di pubblicazione del primo dei cinque romanzi di François Rabelais dedicati alle triviali avventure dei colossali Gargantua e Pantagruele, avrebbero fatto di me, di noi, gli spettatori perfetti per l'interiorizzazione della dottrina dello smisurato. Oggi come allora ci saremmo trovati di fronte a figure la cui caratteristica principale è l’espansione, perché quando l’enormità del vivere diventa incontinenza ecco che scatta qualcosa in chi guarda.
Ma cos'ha in comune il gigante Pantagruele (oggi ricordato di più come l'ispiratore del correlato aggettivo) con un uomo che nel 2018 ha raccolto oltre 5 milioni di visualizzazioni sul suo canale YouTube filmandosi mentre ingerisce quaranta Kinder fetta al latte più un pollo simpaticamente definito 'rafforzante'? Entrambi non conoscevano il termine mukbang.
Il nome di questo format digitale, che nasce in Corea del Sud tra il 2009 e il 2010, è una crasi tra le parole 먹다 (mokta) e 방송 (bangsong) ovvero mangiare e trasmettere. La pratica è ormai diffusa ovunque anche perché la realizzazione dei contenuti è semplice e ripetitiva, proprio come la masticazione. Il creator si piazza davanti alla telecamera dello smartphone e consuma (spesso in diretta) insieme ai follower quantità estreme di cibo di ogni tipo, prevalentemente junk food, meglio se piatti coloratissimi, succosi, crunchy e dalle forme elaboratamente fantasiose. C’è sempre un fedele microfono attaccato agli abiti per enfatizzare l’asmr, l'unboxing, il suono dei morsi e il suono dei sorsi (si beve anche a volte, per la maggior parte bibitoni con cannuccia).
Non capirò mai che fine fa il tempo che quotidianamente baratto in nome dello scrolling infinito, ma ricordo di essere rimasta molto colpita dalla morte di Youtubo anche io, il creator-influencer delle Kinder fetta al latte di cui sopra, ma anche (e soprattutto) l'uomo dietro lo schermo ovvero Omar Palermo, che in un altro video, pur di non arrendersi al sonno e alla solitudine, nel pieno della notte, seduto al tavolo della propria cucina, taglia minuziosamente una verza raccontando tra una foglia e l'altra sprazzi di se stesso con una naturalezza lacerante e commovente. A quantità impossibili di vivande accompagnava riflessioni colte legate al Rinascimento, alla storia della Persia, alla cura dell'orto. Era qualcosa di diverso da tutto il resto.
La sua morte, avvenuta nel 2021, è accompagnata dal ricordo di quelle abbuffate esagerate e grottesche che erano perlopiù una disperata cornice espositiva per attirare l'attenzione su un disagio più profondo e a cui oggi altri creator si aggrappano per ragioni sempre intimamente diverse.
Più o meno ogni giorno su Instagram mi imbatto in video-sessioni virali di mukbanger e, lo ammetto, certe volte le sedute mi ipnotizzano, altre mi rilassano, altre ancora mi danno la nausea.
Queste persone ingeriscono alimenti che per ragioni etiche e di salute non mangerei mai e allora perché non passo oltre? Sembra proprio questo il fulcro della loro viralità: di queste gare culinarie noi siamo semplici spettatori, vogliamo osservare fino a che punto può reggere lo stomaco della persona che abbiamo virtualmente di fronte ma non ne veniamo realmente toccati, quel cibo non farà male a noi ma solo a loro, che alimentano un voyeurismo che contiene un ribaltamento esperienziale curioso se ci pensiamo, una tensione latente: è chi guarda passivamente a possedere la scena del pasto, mentre chi mangia diventa oggetto di consumo, altre volte ancora di scherno e sdegno, altre è un esplicito atto di esposizione erotica, dove la passività dell’essere nutrito (alcuni mukbanger vengono imboccati in maniera sfidante da alcune comparse) richiama una dimensione esplicitamente sessuale.
L’estetica dell’esagerato, correlata all’ostentazione del grottesco, ha tratteggiato per secoli un universo simbolico potente e il cibo non è esente da questo immaginario: è comunicazione, esattamente come la carne, come la fisicità che nostro malgrado abitiamo. Bocconi che dilatano la bocca, dita unte, lingue che leccano, labbra protese, denti che mordono e strappano pezzi di carne, il suono volutamente enfatizzato della deglutizione, tutto collabora alla costruzione di un’estetica del corpo che gode, ma consumare, qui, fa rima con feticizzare, perché l’atto dell’ingestione è recitato come una penetrazione inversa e senza limiti d’accesso.
Eppure, tutte le volte che assisto a una performance del genere, non riesco mai capire se davanti c'è un corpo che gode o semplicemente un corpo che sopporta.
Giulia Bocchio

Salvo © Sant'Anna, 2009/2010 Olio su carta intelata Curtesy Pananti (Si apre in una nuova finestra).
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